di Giada Melia Spinella
Pubblicato su “E’ Tempo di Cultura“
In questo inizio secolo-millennio, è tutto un rumore che non lascia traccia. Di rumori, di guerre, di terremoti, di pianti. Un oh, oh, scandalizzato di fronte a tutto va contro la morale comune e un assoluto nulla per agire in maniera corretta e con rispetto per se stessi e l’avversario. I bla bla sui valori celano i desideri di maggiori guadagni e potere. Quasi ogni giorno i giornali urlano le loro notizie mettendo alla gogna teste incoronate e portaborse. Basta che la notizia paghi la loro notorietà e ruoli mai messi in discussione vengano fatti fuori agli occhi dell’opinione pubblica, a sua volta pilotata con regia più o meno egregia. Tutti contro tutti, in nome della morale, del bene comune. E della lobby che si rappresenta. In televisione noiosi monologanti ben pagati o che sperano di sgraffignare un posticino fra coloro che contano, ci spiegano perché è giusto quanto è stato pubblicato o quello che ancora deve essere pubblicato: ci parlano di guerre, di terremoti, di post-terremoti, di pandemie influenzali, di recessioni, di fughe di capitali all’estero, di scandali. Niente di allegro, come si può notare, ma tuttoconvincentemente corredato di foto, inchieste, interviste tendono a convincerci che viviamo nel peggiore dei mondi possibili e per difenderci da questa iattura basta solo entrare a far parte delle fila di questo o di quello, applaudire o insultare Tizio o Caio. Senza mai dimenticare, coi tempi che corrono, che bisogna lavarsi sempre le mani con Amuchina.
Ora, se invece di scandalizzarci, di preoccuparci, di spaventarci, di esaltarci ci ponessimo la domanda: perché tutto questo? A chi serve? Chi ci guadagna? Non so se saremmo in grado di avere risposte, ma perlomeno potremmo proporci di trovarne. Se si ritornasse a pensare, invece che ripetere frasi di altri che a loro volta citano, forse a poco a poco riscopriremmo il gusto del collegamento fra eventi e delle conclusioni ragionevoli e sensate dopo lunghi ragionamenti. Oggi, nel tempo dei lunghi monologhi di tre quarti e con le luci giuste, provati infinite volte di fronte allo specchio, durante l’epoca dei grandi fratelli che mettono in piazza delitti, dolori e lacrime, talmente veri da sembrare finti, esistono le masse: che piangono, si commuovono, si sdegnano, protestano.
Non esiste più l’uomo, quello è diventato invisibile, proprio nell’epoca della massima visibilità. Oggi egli viene considerato solo se fa parte di una massa consumatrice. Di per sé non interessa, non fa notizia, non si vede. Eppure, se solo si ha la forza di abbandonare il quotidiano rimbambimento televisivo e si ha la capacità di andare per strada, l’uomo esiste, è lì, cammina, saluta, ride, piange, chiede l’elemosina, arranca nella vita. Insomma, c’è. E forse per eliminare la sua invisibilità, non bisogna parlarne, perché farlo impoverirebbe la sua preziosità, la sua unicità. Nessuna inchiesta o documentario possono meglio comunicare quanto ogni giorno esiste nel suo quotidiano, fatto di emozioni e sensazioni, per la maggior parte, che travalicano la parola del cronista, al quale, con sua buona pace poco interessano. Lui, incasellato nel suo mestiere più che all’oggetto del suo lavoro, pensa allo spazio che gli è stato dato sul giornale o in trasmissione e quanti periodi deve scrivere per non scontentare la sua testata o quante frasi può pronunciare per raggiungere l’effetto in trasmissione, prima che gli si tolga la parola. Egli si muove dentro gabbie-segmenti che normalmente sono amorfi, soprattutto se mal gestiti, ma se usati bene possono attivare l’applauso o la rabbia di chi sta di fronte.
Nella nostra memoria ogni giorno viene riscritto qualcosa di già visto, già sentito e che a noi sembra per collegamento emozionale,bello, eccitabile, disgustoso, a secondo l’effetto che i gestori dell’informazione ci vogliono imprimere. Così noi ci muoviamo, ci vestiamo, ci atteggiamo a secondo di come i media ci bablizzano e perdiamo il gusto di una battuta che sia nostra, ancorché sgrammaticata, che non sia una continua citazione dell’uomo noto. Imitiamo l’inarcata sopraccigliare di uno, gli occhi levati al cielo di un altro, il saluto bonario, la parola tagliente, la finta ingenuità, il giustizialismo di questo, il massimalismo di un altro. Di fronte a tale perfezione di modelli noi rimaniamo così estasiati che ormai non sappiamo più esprimerci se non citando o imitando lo stile dei nostri beniamini burattinai. Per il resto, ci si arrampica sui “cioè”, “voglio dire”, “non ci posso credere”, “non ho parole” o “che te lo dico a fare”. Si badi che queste espressioni sono quasi tutte precedute da “non” e sono ripetute da molti quasi ogni giorno meccanicamente e ossessivamente, con sottofondo negativo. Se io dico “Non ho parole”, aspetto che altri le abbiano al posto mio e si esprimano per mio conto. A mio rischio e pericolo, ovviamente, visto che non sono in grado di interloquire o ribattere. “Che te lo dico a fare” equivale a dire che è inutile parlare, tanto o l’altro non capisce o io non sono in grado di farmi capire. La frase “Non ci posso credere” poi, sta ad indicarci la cosalizzazione dell’essere umano: non credo a quanto mi comunicano i miei sensi perché sono impedito a farlo.
Attenzione alle frasi tipo diffuse attraverso i media. Quasi sempre nascondono trabocchetti per le modalità espressive umane, che al ripeterle perdono chiarezza e acquistano in fragilità.
Funzioni simili ma di saggezza hanno avuto i proverbi che nei secoli sinteticamente hanno tramandato concetti complessi e spesso profondi, la ripetizione dei quali si è impressa nella mente delle persone in maniera utilissima, soprattutto in epoca di emergenza sociale quando occorreva che nella gente fossero impresse consapevolezza e buon senso. “l’abito non fa il monaco” ad esempio ha fatto capire per secoli anche al più ignorante che la realtà a volte non è quella che ti si presenta e che non basta credere all’apparenza di ciò che si vede o si ascolta e che bisogna ben guardarsi, soprattutto da chi ti vuole apparire se stesso scevro da difetti. A volte si portano avanti copioni perfetti basati solo su ciò che si intende far apparire come verità. Oggi i messaggi occulti si imprimono nelle nostre memorie e alla fine ci dominano con i loro “non”.
Non sempre però la negazione ha un esito così nefasto. Esiste anche quella che afferma se stessa. Quella usata dai bambini, per intenderci, che in questo modo affermano la loro identità. Ma quello è un NO in grassetto, che pochi oggi sanno dire. Di più esiste il “non”, che porta alla rinuncia perché si ha paura e si subisce una indicazione data da altri piuttosto di cercarla di darla noi stessi. Il “non” viene usato dal padrone e dalla vittima. Fra il no e il non c’è una enne di troppo che negli effetti pesa più di un macigno.
E dell’uomo che per sua natura è geniale, creativo, umorista, combattivo. Cosa rimane di lui in questi duelli mediatici da falso west alla Sergio Leone, ricostruzioni e patacche doc che gli strappano via, tempo, energia, voti, denaro: dipende. Forse potrà uscire dalla sua invisibilità attraverso un umorista, sensato, dignitoso, silenzio che lo porterà a rinunciare alla sua acquiescenza partigiana rumorosa. Un silenzio che lo porterà ad uscire allo scoperto per essere quello che è sempre stato: un mostro d’ingegno in grado di compiere imprese inaudite. Senza più ascoltare imbonitori, rimboccandosi le maniche e fra una battuta e l’altra ricostruire con le nostre mani quanto ci è stato rubato o abbiamo perduto per strada senza rendercene conto, trovando le nostre parole, facendo i nostri discorsi, senza paura che il giornalista di grido di turno affermi quanto siamo idioti a non dire quanto afferma lui. Anzi, sentendoci onorati, se qualcuno ci dice così.
Significa che non siamo poi così uguali, così massa.
Senza chiedere il permesso ai bablatori. Con loro buona pace, se rimarranno delusi.
Giada Melia Spinella
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