Spleen baudelairiano per Nina Maroccolo:
l’Isola Tiberina diventa l’Île de la Grande-Jatte di Seurat
Leggo a caso una pagina dal libro “Animadre” di Nina Maroccolo, Tracce Edizioni, 2012; è una pagina di diario:
7 novembre
Domenica insostenibile.
L’uggia del tempo mi rende acquattata, similmente alle piante gracili quando trattengono pioggia o umidità: con le iridi rivolte all’ingiù. Quel tanto da colloquiare con i piedi dei passanti, prediligere il contatto ravvicinato col suolo bagnato.
Penso: “Se questo è l’asfalto, il sottosuolo com’è?”
“E’ la convinzione della malattia” suggerisce Italo Svevo.
Intanto i passeggiatori della domenica ti guardano e non ti vedono (nei giorni lavorativi usano gli occhiali: continuano a non vederti, ma lo fanno meglio).
Seurat li intride di monocromia. L’Isola Tiberina diventa l’Île de la Grande-Jatte: intrattiene dame ammaritate, bambini, cani, scimmiette.
L’universo pomeridiano li astringe nel grigiore. Li conduce per assenza.
Manca la tua luce sferica, Seurat!
La pioggia cade fitta. Infilerei il cuore in una bettola.
Apprenderebbe volentieri la tiritera dei sorsi d’uva ingollati fitti fitti, se solo smettesse di diluviare.
Origlio le nostre vite, Livio. Veri conciliaboli d’annata.
Ore 23
Assumo la seconda dose unica di lachesis. Istantaneo miglioramento.
PREMESSA
Il quadro di Georges Seurat al quale si fa riferimento nel testo è “L’ile de la Grande jatte” in cui il pittore dipinge una tipica domenica pomeriggio sull’isola della Grande Jatte, un luogo molto popolare ai suoi tempi, sulla Senna, a nord-ovest di Parigi. Per sei mesi andò ogni giorno all’isola a fare schizzi del paesaggio e delle molte figure – quasi in forma geometrica – che lo animano (la madre con la bambina, o la donna a destra, vestita all’ultima moda) prima di dipingere, nel suo studio, il quadro completo. Le figure sono come inchiodate alla tela, immobili e la scena è statica. La donna con la bambina e con l’ombrello rosso, l’unica in posizione frontale, è il perno su cui ruota tutta la scena. Il colore è scomposto in una fitta trama di punti, stesi con assoluta precisione scientifica. Un’ampia zona d’ombra in primo piano aumenta la luminosità della parte in profondità.
La scena alla quale assiste Nina sull’Isola Tiberina (isole entrambe; entrambi – Nina e Seurat – ritraggono scene familiari e domenicali ma in questo contesto siamo all’interno della città e non all’esterno come nel quadro del pittore francese, scena che risulta più aperta) ricorda il quadro di Seurat con l’evocazione di protagonisti simili a marionette rigide proprio come quelle presenti nel quadro: “l’isola intrattiene dame ammaritate, bambini, cani, scimmiette”. Ma la tela, oltre a suggerire la falsità dei personaggi domenicali, fa da contrappunto allo stato d’animo di Nina: il grigiore della giornata richiama alla memoria, come sollievo, la gaiezza dei caldi toni di Seurat.
Si tratta di una giornata uggiosa –direbbe Lucio Battisti- come tante vissute da ognuno di noi, quando piove a dirotto, non si ha voglia di uscire di casa e si desidera restare rintanati al calduccio, rannicchiati nella propria poltrona.
Che sapore ha una giornata uggiosa? Ce lo dice Nina attraverso una serie di termini: tedio, pioggia -vocabolo ripetuto due volte- che comporta sensazioni di umidità, di bagnato (ancora umidità), di atmosfera grigia e tetra.
E’ che il vero protagonista di questa pagina di diario è lo spleen.
Charles Baudelaire ha saputo ben descrivere questo stato d’animo: il dolore, l’assurdità di vivere, un disgusto profondo che ha le sue radici nel Romanticismo (il celebre mal du siècle del René di Chateaubriand) e che arriverà fino alla Nausea sartriana. In tutta l’opera baudelairiana (il Male è presente già nel titolo) si incontrano varie sfaccettature di questo tema sotto la forma della malattia, della morte, del nulla. La parola spleen, assunta a titolo di tante liriche, deriva dall’inglese e significa milza, l’organo che ha lo scopo di assorbire l’eccesso di bile presente nel sangue e nel fegato. Anomalie nel funzionamento della milza portano ad un eccesso di malinconia:
Quando il ciel, basso e greve, pesa come un coperchio
Sull’anima che geme in preda ai lunghi tedi,
Quando dell’orizzonte occupa tutto il cerchio,
Versando nera luce più triste della notte;
Quando il mondo si muta in una prigione umida
Nella qual la Speranza, simile a un pipistrello,
Rade i muri qua e là con ala timida
Urtando il capo in marci travicelli;
Quando la pioggia, coi suoi tratti immani,
D’un’immensa prigione raffigura i cancelli,
E in una muta schiera infami ragni
Vengono a far la tela entro i nostri cervelli,
Le campane, d’un tratto, scatenate,
Ululan verso il cielo con furore;
Anime senza patria, desolate,
Che gridano ostinate il lor dolore.
-E lunghi cortei funebri, senza tamburi o musica,
Sfilano lentamente entro me; la Speranza
Vinta singhiozza, e l’Angoscia, dispotica,
Sopra il mio cranio chino pianta il vessillo nero.
Vorrei soffermarmi sulla metafora della pioggia. Wilma Vedruccio, autrice di “La casa del sale”, raccolta di racconti in cui presenta un Salento atavico e archetipo, dice della pioggia: “è un evento raro, auspicato, desiderato, che soggiunge a metà giornata, quasi sempre burrascoso, ma con acqua benefica e benedetta come acqua santa, per i propri lavori e per l’agricoltura dell’intera regione” (p. 104).
La pioggia è universalmente considerata come il simbolo delle influenze celesti ricevute dalla terra. Feconda il suolo che ne ottiene fertilità. Da cui gli innumerevoli riti agrari per scatenare la pioggia: esposizione al sole, appello dell’uragano attraverso la fucina, monti di sabbia cambogiani, danze diverse. Ma questa fertilità si estende ad altre campi: ciò che scende dal cielo alla terra, è anche la fertilità dello spirito, la luce, le influenze spirituali.
E Nina è sensibile alle energie dell’altrove.
Fausta Genziana Le Piane
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