di Letizia Lanza
… esce nel sole l’aquila, e distende
in tarde ruote digradanti il nero
volo solenne.
Una giovanissima linfa vitale – preziosa vena aurifera – percorre la nuova silloge poetica di Cesare Ruffato (Il poeta pallido, Marsilio 2005) composta di nove sezioni fittamente abitate: Preludio; Il poeta pallido; La salute; Edùlio; Il ritmo del corpo; La membrana; Il viaggio illeggibile; Suoni viola; Tot es niens.
Un’ennesima prova maiuscola, che nel titolo chiaramente allude al «Qui posava l’austero; e avea sul volto / il pallor della morte e la speranza» dei foscoliani Sepolcri e nella quale, può sorprendere?, si distende un tenue ma «effuso azzurro» di carducciana memoria. Tale, di fatto, la prima impressione (o per lo meno, una delle più convinte) che nasce dalla lettura/studio dei nobili versi, forse essenzialmente a motivo del (savio) disincanto dell’autore:
Mi ripeto costante nelle stesse
fatiche senza illusioni
inceppato nel peso del fondo
con nubi metafisiche smorzate.
Il tramonto medievale allucina
una prospettica siepe
che ci abbrevia e consòna
col nulla in contemplante sguardo
del silenzio munifico d’ogni ricostruzione
con l’anima enne tesa all’intero
superstite della nostra sorte.
Ora parlo e scrivo le cose mie
più intense nello spirito tuo
e più accorto avverto
che mi accosto all’impercettibile avvio (p. 131).
Il che, naturalmente, non esclude né esorcizza il repentino, spiazzante insorgere di brani virati al grigio («Siamo ombra accosta alla forma / come i nostri giorni in queste dune / di pianto nei bagliori dell’urlo / solitario che tutto fluttua / e sostiene in vita. / Indigenti e mendicanti cercano / un po’ d’acqua, noi nei gusci / guardiamo l’alba che scivola / e spegne il ticchettio dei sogni. / Al mondo tutto è retorica ornata. / E si dura espropriati nell’analogia / del ricordo e a vuoto insistono / le invocazioni frante colle stelle», p. 114) – o fors’anche al nero («La parola affanna il silenzio d’erba / con trame di vocali strane. Spunti / guizzo lucente stratega / di sentieri, ora felicissima / voce cerulescente per prati / modulando rosulenta dolci miche / di giochi, suono sognato di fonte / parvula liturgia di lutto / il pianto a poco serve e dimoro / nei libri loculi di lettere / supine che non alleluiano / ma allontanano nella rievocazione. / La mente mi dice di non stimarmi / felice per ciò che mi circonda / ma d’invocare con mani / il cielo per il domani», p. 137).
A dispetto di ciò, un alone di «effuso azzurro» (screziato, qua e là, di spunti sobriamente ludici: «La crostata al rabarbaro squisita / offre sapido il floema / della pianta …», p. 59) si ostina ad avvolgere e mitigare il tormentoso rovello poetico, sia pure nel rispetto, dunque nell’impegno – doveroso irrinunciabile – della complessità (cioè dell’impenetrabilità sostanziale) del dire: «L’estro meticoloso del beato inizio / ci dispone entomologi virtuosi / in costante premeditazione. / Intanto si affaccia un libro / inverosimile con colline di parole / e conchiglie umane supplici / ispirate nella nebbia» (p. 10).
Di fatto, al di là di rapinosi slanci (d’un subito sedati e imbrigliati in più pacato dire) vige la ricerca strenua, perentoria di essenzialità/densità – che tuttavia (come consuetudine del medico-poeta) si avvale di un lessico ovunque sofisticato, elegantissimo («Restiamo una scelta esteriore / con patine e sigle di nostalgia / infantile, tu rientri nel sangue / poetico dei fogli e delle letture / io perfeziono l’arco dell’occhio / con sofia nel midollo del passato», p. 35), dando magari l’impressione di perdersi in un labirinto di fastosità verbale, ma vice versa sempre cedendo alle «intenzioni del poeta-battelliere» (Mario Marchisio). Qui come in altre raccolte – e lo dice bene Velio Abati nel magistrale intervento che apre il massiccio Per Cesare Ruffato. Testimonianze critiche (Marsilio, 2005) – «il lavorio principale avviene … a livello lessicale, costantemente forzato a un’indicazione connettiva, quasi ad attenuare le profondità semantiche proprie di ciascuna parola, a smuoverla dal concreto piano denotativo: quello scientifico, ma anche quello più ordinariamente referenziale, per spingerla invece verso una sorta di parola-sintassi. Che questo approdo a una lingua … dove sono esaltati gli elementi di codice rispetto a quelli che tendono a eccederli, sia la tendenza fondamentale è confermato anche dalle scelte tematiche» (p. 6).
Non di rado infatti l’urgenza del canto viene a rapprendersi in agglomerati gnomici, che offrono maggior risonanza alla coscienza ribelle, non esente da (mal dissimulata?) vis polemica, dell’autore. Umanamente forti e autentiche, nelle sue liriche – da cui di solito si vede più terra (penso ai versi di Gottfried Benn: «La forma, il gesto della forma / che si diede, ci demmo – / è vero, tu sei terra / ma la terra devi scavarla») che cielo – i versi paiono raffiche, giaculatorie irate che lottano contro l’insensatezza malvagia del mondo, nel momento stesso che ad essa si aprono: «In crisi economica e di ghiottona / politica il poliorama morale / segna il passo, non risolve la sociopatia / esorbitante maschera evasiva. / La realtà ipocrita callida / è una metafora di vita / da meditare e depurare» (p. 25); «Hai ragione su molte cose taciute / e sorvolate come sprizzo dell’enfasi. / Gravi flemmoni sociali scansati / o andanti in salotto talora / esplodono flirt macabro. / I giovani inani s’annichilano / di fede, l’universo geme segnali / affievoliti, deprimenti foto / di persone mass media e vanità / di gruppo. Ripristinami i neuroni / per direzioni sublimi» (p. 26).
Strali acutissimi si appuntano qui e là – in special modo contro lo squallido mercimonio di una (oggi più che mai) male intesa femminilità: «Tenere donzelle figlie e putte / del coro grigio che flette corolle / in fiore e veste d’aria ormai / professano il ritiro scheletrico / dell’anoressia controcanto della vita / sfilano scolme in passerelle su tacchi / a spillo o smunte fra paludamenti / di malinconia sognando creme / effervescenti, parole manna / evanescente cimata di panna» (p. 52); «Tutti in tempera i nuovi colori / della pelle con ombretto spruzzato. / L’opacità delicata del rettile / rende stupefacente sfidare / la mela originale. La sera orografa / e clicca lo sbrego sintetico / punctato di diamanti. Nell’ultima / estate una tela d’occhi lessi / e prosit sulle brune meno sceme / nel pallore più pallido d’ocra / spirituale con caviglie stringate / manichee gommate di musica / filante. Fanciulle pastello del rock / vestali estenuano fiori. Su labbra / rubate la perla illumina / una romantica avventura. / Nella festa non si sa cosa fare» (p. 66. Un discorso a parte meriterebbe l’intera sezione dal titolo: La membrana, pp. 75-84).
Ovvero, moti di autentica stizza sopraggiungono a ripulsare ogni incivile arroganza: «Il danno insinuante della sigaretta / non tramonta e tu prossimo non devi / fumarmi in faccia o affumicare / nel chiuso. In giardino mi conforto / riassaporo il volo della fotosintesi / tra scongiuri efficienti. Vari amici / nell’archivio spento nicchiano / estranei a insulsi godimenti / a risposte ad accorati avvertimenti» (p. 50).
Poiché è voce libera, liberissima quella di Cesare Ruffato. Parola poetica di incensurabile rigore e, direi, prepotenza etica: ambedue prodotti da un animo terso che non intende cedere a compromessi, accomodamenti – né tanto meno alla facile legge del business; ambedue rispondenti a una ferrea intransigenza che sostiene e alimenta di continuo la tensione allo scavo (in sé e negli altri); alla ricerca (della Parola, anzi tutto: senza obliterare il cripto-linguaggio, fastidioso e saccente, dell’informatica: «Quella di internet on line dilagante / straparla wappa clicca / glissa in cyberlingua straniante / quale forwardami un mail / e se mi frange lo dropperò», p. 84); al dotto lavoro di lima («È nella fortuna della tradizione / che il poeta si aggrappa a rime / e cuore pertica iperboli stura / alambicchi sfiora i nasi dei lettori / e scende a patti colle parole / in lunghe insinuazioni perde il pelo / mola il pensiero per eliminare / finta verità e versi scipiti. / Così equilibrista guarda innanzi / e soltanto alla fine recide / il filo virtuale del sogno / su foglie cadenti sprovvedute», p. 99). Il che, tutto insieme, spiega pure una certa riservatezza ombrosa, un desiderio di appartarsi che non è però un fuggire dall’altro – e, anziché essere di ostacolo, vale a una più fonda penetrazione del reale, specialmente del mondo di ora. Così da, non di rado, compatirlo – o vice versa, con maggiore frequenza, biasimarlo. Ecco allora: la serenità a prezzo conquistata venarsi di crepe e spezzarsi per lasciare il varco all'(in-)sofferenza scontrosa:
Distaccati dal vissuto e dal posto
ci imbattiamo in Platone e Aristotele
meridiane acute della mente
nel riverbero di sentieri interni
teoretici. I fantasmi eccellenti
si accostano sempre più soffici
la tunica lascia scorrere parti
del corpo snodate, non potrò toccare
il giusto né confidare nel divenire
né aprire il segreto della chiarezza.
Mi resta l’osmolìo dell’essenza
come l’amore segreto in rima
indefinibile, lacerazioni
del cielo per mostrarmi il senso
la nostra complessa introspezione
inattesa e la mano fluttua un richiamo (p. 38).
O anche, per trascorrere alla preoccupata afflizione: sia intima, personale («per ora l’acqua è bassa come i nostri / umori che gelano parole / e scie marine», p. 15) sia di più ampia portata – al punto di farsi planetaria, cosmica addirittura.
Così in parecchi brani: «L’aria fina si scortica / nel miscuglio infido col sole / ad incendiare suoni cocciuti / di figure in cerca di salvezza. / A mezza costa il terrore del fuoco / sconvolge i gabbiani e ci richiama / la betulla ieratica stilita. / Si abbassa il segno di contemplazione» (p. 11); «Perché mai la senescenza dovrebbe / irritare quando chiede ragione / degli appassiti germogli e del danno / a catena, implora la detersione / di scorie, raziona monete preziose / gioca a carte con le cause prime / sorvola gli errori di struttura / soffia piante maestose centenarie / la longevità degli attori del pensiero. / Male mi adatto al puzzle sociale / di cinereeazzurrine misture / con addobbi spavaldi delle chiome / alieno al centro universo di verità. / Che l’uomo dunque non vi giudichi / per il mangiare e il bere / e per il rispetto dei giorni festivi / o la luna nuova o i sabati / che sono un’ombra delle cose / a venire» (Paolo ai Corinzi II, 16-17)» (p. 46).
Ma sopra tutto nel lungo, sarcastico j’accuse che incendia le pagine 82-83:
Saltimbanco osé il paradigma
del buco nero, in 3D sbuca
come membrana sferoidale pressata
e con ampliato orizzonte
per rapida rotazione ingoia
le particelle con massa e lascia
posare i fotoni quali insetti
sulla pellicola. Altoforno di plasma
accelerato, esili getti di gas
nell’eternitàluce ed altre fisime
fisiche alleano un finimondo
in suspense. La docile teoria
lo ritorna per qualche verso
al cordone ombelicale dell’universo.
Mi vengono buoni certi suoni
un babau religioso dietro la porta
il taffetà tenebroso del camino
orifizi con barba e corna del demonio
il bosco frantumato epicureo
con spelonca e penombre dell’amore.
Ma allora il black hole filtro sublime
memoria dell’abisso che curva
e geme il tempo potrebbe accogliere
lo spirito del pensiero in uscita
il posto bioetico dell’io, il punto
di morte di una stella blitz della vita
l’insonnia erosiva della tenebra
il culmen del silenzio e del segreto
della luce altra incolore
ed inaudita il fatuo cuore.
Di qui (e da altro ancora, è naturale: il libro si presta a letture plurime) repentino, trafiggente – benché non troppo amaro, in fondo, quasi ironico – il pensiero della Nera Signora: «Di rado con l’anziano discorro / sulla morte con sedia sociale / sui cibi del viator nel transito / e spio il giovane che contratta / il morbo come una vita a metà. / Il servizio funebre richiede / parole un po’ vagogrigio qua aldilà / ora ma poi occhiali fumé volto / scavato un tono e rughe un po’ cinici / un internet sito distaccato / auspico per me un colpo dolce / anonimo egoista smemorato» (p. 89); «Non si può più parlarmi di istanti / mi si è riproposta una cripta da solo / con luce sincrotronica e porticina / tampone previa frollatura / all’obitorio. Il problema della mia / morte mi lascia indifferente / è nella autonomia trascendente. / In un corner dell’anamnesi / figurano gli oli santi e il timbro / della direzione sanitaria. / Mi lascio cullare dall’attesa / di una visita. Nessuno avverte / del viaggio bianco nei pascoli / celesti. Mi passeranno il coltello / per annusare le antenne superstiti. / Tengo stretti i sintomi mi sforzo / di rileggere un discorso dell’aldilà. / Intenerisce questo serbare / e umanare nell’ascensore virtuale. / Qualcosa mi liscia mi trucca ancora. / Interminabili il coperchio del camposanto / le riflessioni morali bendate / l’odore dei petali orfani / i tonfi il fruscio. / Sensazione di mondo diverso / nasconde la scia / vela il desiderio di amare / con l’intensità dell’estinto» (pp. 92-93).
Poiché ormai, per il grande poeta, la misura individuale, identitaria (per quanto, ovviamente, essenziale: «Iniziali anagrafiche per custodire / intimità R L ved R / 19-1-1895 3-7-1973 / L R 22-4-1897 10-11-1972 / lapidi di mia madre e mio padre / purissimi pioppi / nel gloria oggi del sole verticale / lamentano pace perturbante / dediche e fermenti giaculatori / inoltraci se puoi nello splendore / con orizzonte che non muore», p. 94) è scientemente by-passata e dilatata ad altra, in-terminata dimensione:
Vedo la morte burlarmi
sorniona di traverso sul binario
o reticente a far pipì in riva
al fiume o sul triclino pungolarmi
conosci te stesso e perfido scriba
mi barocca il nome in minuscola
tonda tapina su drappo nerofumo
apocopa e reintegra in puntini
le vocali affanna spazi con ornati
fitomorfi e preliminari graffiti.
Apatico ormai più che al mio
coadiuvo al monumento dell’umanità (p. 143).
Fiamma cigno airone nell’agonica
figura del Cristo in croce. Sparire
nel suo odore nella scia della sua
resurrezione senza lagnanza
forma esasperata del vuoto
e della vita del tempo che mi gioca
e minuzzola in chiasmatica sabbia (p. 144).
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