dd - MARTIN SCORSESE E IL DIO DENARO

Wolf of Wall Street è un film frastornante e mimetico. Affronta il tema centrale del nostro tempo – il mondo della finanza americana, l’immensa truffa di un capitalismo trasformista e immensamente distruttivo, anche di se stesso in vista di mutazioni a venire – scegliendo, a partire da un’esperienza reale, la strada della commedia cinica. Essa, egli si giustifica senza affatto convincerci, dovrebbe svelare e far raccapriccio mentre, a giudicare dalle reazioni del pubblico Usa, diverte e fa ridere. Il suo fare è perfettamente interno a quel mondo, che è il solo che egli riesce ormai di narrare, stregato dal culto del Denaro e della Violenza, le due cose che da anni sembrano le sue uniche fonti di ispirazione,almeno da quando il fiasco di Al di là della vita (2000) gli fece voltare le spalle a Dostoevskij e spingerlo a imitare i suoi imitatori, come il mostriciattolo horror Quentin Tarantino. La “carriera di un libertino” di basso conio, moralmente ributtante, e del suo “giro” di arrivisti capaci di tutto, è affrontata da Scorsese con i modi di un Jerry Lewis o di un Frank Tashlin di una volta, anzi di un Tom e Jerry, però esasperati (dal montaggio richiesto dal regista a Thelma Schoemaker) così veloce e però così ridondante da portare allo sbadiglio. Tutto di corsa e tutto gridato, ossessivamente isterico, Wolf of Wall Street non lascia spazio a nessuna riflessione e allontana il giudizio invece di accostarlo. Affascinato com’è – suo membro – dal mondo dei soldi, Scorsese ci appare infine come un Wolf anche lui, certamente più astuto del suo abile Jordan Belfort, venuto dal nulla come un Berlusconi (che da noi però era un pioniere, non solo uno scopiazzatore). E così egli finisce per apparirci come un mistificatore iper-nevrotico (che droghe consuma, oltre il cinema?) la cui capacità di giudizio morale si è andata attenuando negli anni per lasciare il posto a una sorta di furia senile di cui la recitazione di Di Caprio è lo specchio: un mondo schifoso raccontato bensì in modo parallelo e similare, che fa ridere solo chi ha lo stomaco ormai adatto, mutato anche quello, con nessuna distanza e anzi con estremo compiacimento. Né può convincerci l’astuzia di terminare il film su un’immagine agghiacciante, e che è l’unica davvero morale, e che è l’unica a mostrarci un popolo di oppressi e miserabili divorati dal culto del denaro imposto loro da quella cultura di cui Scorsese è l’espressione più ambigua, un esempio efficace.
Questa frenetica e urlata danza di folli si ripete per più di due ore e mezzo, una delle quali inutile. Essa ci conferma nella nostra paura e nel nostro ribrezzo per quell’american way of life che ha corrotto ahinoi tutti meno i fondamentalisti, ma non ci aiuta a capire un bel niente, e ci dà nostalgia degli Hogarth e dei Mann (Felix Krull) per non parlare del geniale Brecht, che aveva il vantaggio enorme, su uno Scorsese all-italo-american che si è nutrito solo di Hollywood e infine di soldi, di aver letto Marx e di aver cercato di spiegare come vanno le cose proprio a quel pubblico che Scorsese ci mostra soltanto nell’ultimissima scena del film. E non sembra farlo per convinzione, poiché lui ama i suoi eroi negativi e crede che siano quelli gli unici eroi del nostro tempo.

Goffredo Fofi

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