Secondo l’Osservatorio nazionale sul femminicidio solo il 24% dei 3.892 casi avvenuti tra il 2012 e al 2013 sono stati oggetto di indagine. I genitori delle vittime propongono di raccogliere tutte le informazioni per monitorare il fenomeno e spingere le autorità a combatterlo. Ma un’iniziativa del genere è già fallita nel 2007
di Elisa Murgese
da Il Fatto Quotidiano
Sei donne uccise ogni giorno. “In Messico il femminicio è una pandemia”. A dirlo è Ana Güezmes, rappresentante locale di United Nations Women, agenzia dedicata alle questioni di genere. Secondo l’Osservatorio nazionale sul femminicidio solo il 24% dei 3.892 casi avvenuti tra il 2012 e al 2013 sono stati oggetto di indagine. Di questi poco più dell’1,6% ha visto una condanna. Ora una soluzione è proposta proprio dai genitori delle vittime: creare un banca dati dove siano schedati tutti i casi di femminicio, perseguiti o meno dalla legge, per monitorare il fenomeno e spingere le autorità a combatterlo.
Già nel 2007 il governo messicano aveva approvato una legge che definiva la nascita di una banca dati sulla violenza di genere come uno strumento decisivo per combattere il fenomeno. Poi nel 2010 la Camera dei Deputati ha stanziato 15,3 milioni di pesos per questo progetto. Peccato che la sistematizzazione di dati e statistiche non è mai stata possibile perché, come spiega la stessa segreteria di Sicurezza Pubblica, la maggior parte degli Stati messicani non hanno fornito informazioni sui casi avvenuti nei propri territori. Così a distanza di sette anni, mentre nulla è stato fatto, associazioni e genitori delle vittime stanno cercando di fare nuove pressioni sul governo.
“L’impunità è il motore principale del delitto di genere – racconta Ana Güezmes ad al Jazeera America – unita al fatto che la violenza contro le donne in Messico è considerata normale”. La rappresentante messicana di United Nations Women descrive i femminicidi come eventi quasi naturali in una società in cui il 63% delle donne dichiara di avere subito abusi da parte degli uomini. Casi di violenza in cui un terzo delle volte è coinvolto il partner della vittima. “In Messico assistiamo quotidianamente a rapimenti, stupri e corpi abbandonati in cassonetti” continua Güezmes sottolineando i pochi sforzi fatti dal governo. Tra le iniziative dell’Osservatorio, quella di erigere una croce rosa in ogni quartieri in cui è stata uccisa una donna. Totem di giustizia che raramente durano più di un giorno prima di essere distrutti.
Sempre secondo gli attivisti servirebbe una legge contro il femminicidio. “L’odio è quello che contraddistingue questi crimini. I corpi mostrano 20 o 30 colpi – continua de la Luz – Seni e volti sono tagliati e gettati nella spazzatura. In una società maschilista come quella messicana, le autorità sono sempre pronte a chiedersi cosa avrà fatto la donna. Che cosa indossava? Avrà avuto una relazione sessuale col suo assassino? Un comportamento che non fa altro che aiutare la copertura dei killer”. A questa impunità, si aggiunge il fatto che nelle periferie della capitale le famiglie spesso non hanno la disponibilità economica per intraprendere un’azione legale.
Tra i genitori che chiedono giustizia c’è Irinea Buendía, una delle tante mamme che ha posto una croce rosa nel suo quartiere a est di Città del Messico. Sua figlia, Mariana, è morta nel 2010. Secondo la donna il marito di sua figlia, un ufficiale di polizia, l’ha picchiata ripetutamente durante i due anni di matrimonio ed è riuscito a convincere i colleghi a non andare avanti con le indagini. “Il corpo di mia figlia giaceva sul letto ricoperto di lividi – ha raccontato in questi anni Buendía – ma suo marito ha fatto credere ai colleghi che si fosse trattato di un suicidio”. Gli avvocati dell’Osservatorio hanno preso in carico il suo caso e stanno aspettando un’audizione presso la Corte Suprema. Ma Irinea non è fiduciosa. Il marito della figlia è stato promosso comandante della polizia.
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