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 CONNETTO... ERGO SUM. TUTTI I DANNI DI INTERNET

di Alba Vastano
La dipendenza da internet provoca disturbi della personalità. E le patologie sono sempre più frequenti fra gli eternamente connessi alla rete.
Confusione, smarrimento, ansia. Insonnia. Tremore e totale mancanza di concentrazione. Ti parlano, ma stai pensando ad altro, oppure non pensi affatto. Non sei in grado di farlo. Non si tratta di mal d’amore, né di tasse in scadenza, neanche di Alzheimer precoce. Succede che la ram dello smartphone non risponda più alle funzioni, inibendo l’utilizzo di tutte le app. O che la scheda madre del pc sia danneggiata. Per giorni in assistenza e la nostra vita connessa si ferma. E può succedere, in particolari condizioni di dipendenza, che ci troviamo ad essere colpiti dallo Iad, acronimo di “Internet Addiction Disorder”. Una vera patologia causata dall’eccessivo uso dei mezzi informatici che offrono la connessione internet.
Una sindrome non rara. Chi trascorre la maggior parte del suo tempo nella rete potrebbe esserne colpito. Il problema non sta nelle app, né nel sistema Android, o nell’Iphone, ma nell’uso smodato che si fa di questi strumenti. Come se la nostra vita si sdoppiasse in due realtà, la reale e la virtuale. E forse non è ancora questo il problema che conduce allo Iad. È che la vita virtuale inquina le sinapsi a tal punto da superare quella reale, diventando poi inesorabilmente l’unica realtà.
Come si finisce nell’obnubilamento del reale e nell’interruzione spasmodica del normale scorrere delle attività della nostra giornata per navigare nella rete? Quale virus che genera una così forte dipendenza si è inserito e radicato nella nostre pulsioni, sì da non poter fare a meno di connetterci per leggere l’ultima mail? O controllare quanti like approvano i nostri post o visualizzare i msg su whatsapp, l’ultimo gettonatissimo prodotto digitale? Si chiama disturbo compulsivo ossessivo, problema con difficile soluzione, tranne che con la volontà.
Come siamo finiti nella tagliola della rete non è poi così misterioso. E non occorrerebbe uno stuolo di esperti dei comportamenti umani con il lungo elenco dei disturbi derivanti dall’uso delle tecnologie, per capire le motivazioni del disturbo. Basterebbe osservare e analizzare la realtà e ciò che avviene abitualmente nel tessuto sociale in cui viviamo, specie nelle metropoli. Sarebbe sufficiente visitare uno store center e entrare in quei mega, ultra- tecnologici esercizi pubblici, dove per effetti allucinogeni, dovuti all’ultimo modello della “mela”, si dimenticano tutti gli effetti della crisi economica mondiale.
Nell’era della globalizzazione, illusorio fenomeno di mercato che offre a tutti le stesse possibilità di acquisto, smartphone, tablet e pc sono già inseriti nelle culle, così che anche i lattanti possano essere connessi, oltre che alla “tetta” materna, contemporaneamente al touch screen.
Da dove ha origine questa dipendenza? Quali gli apparenti apporti positivi nella nostra vita personale e nelle relazioni sociali? Perché la frequentazione della rete spesso ci dà euforia esaltando i nostri sensi e ci offre pronta autostima, bypassando così, almeno fino allo Iad, la parcella dello psicologo? “Elementare Watson”, per dirla alla Sherlock Holmes.
È’ chiaro che lo Iad assale particolarmente le persone più fragili emotivamente e socialmente. Inoltre s’instaura facilmente nella fascia d’età giovanile ove la personalità è più attaccabile da impulsi esterni che offrono sfere ludiche a gogo, piuttosto che oneri, impegni e problematiche.
Il battesimo della rete, avviene con l’accessibilità rapida. Tutti vi possono accedere, perché tutti possono facilmente possedere quegli strumenti. Ne nascono anche fenomeni di “mala educacion” evidenti. Pensiamo al bimbo, nella primissima infanzia, che viene letteralmente imboccato da nonne premurose e madri ansiogene, mentre gioca con le ultime app scaricate sul costosissimo Iphone paterno. Accetta di nutrirsi solo a questa condizione.
La dipendenza dalla rete è in agguato e crescerà insieme al pargolo, che sarà sì ben pasciuto, ma rischierà lo Iad nell’adolescenza. O pensiamo anche a un convivio in cui ognuno dei commensali sta guardando il suo whatsapp. Ne derivano, in tal caso, anche boutade che sfiorano l’assurdo, e che possono tramutarsi in fenomeni pestiferi nei rapporti di coppia, scatenando perfino rotture coniugali. Senza voler toccare il triste fenomeno del cyberbullismo, che nutre le cronache nere di agghiaccianti episodi.
Alla rete si accede ovunque c’è un telefonino (ma non doveva servire solo al “Call”?) o un pc o un tablet e in un attimo. Qualsiasi azione della quotidianità non può più essere un impedimento, anche la più intima. Una “deregulation” dell’uso degli strumenti digitali, a tutti gli effetti.
Altro aspetto che induce alla frequentazione compulsiva della rete è l’onnipotenza del controllo. La comunicazione in rete è totalmente autogestita. Possiamo entrare e uscire a nostro piacimento, controllando al nanosecondo e in tutti dettagli i nostri interventi, ma soprattutto, nel caso di alcuni network, fra cui emerge Facebook, possiamo controllare la vita degli altri. Questo aspetto ci fa sconfinare dalla vita reale, ove spesso siamo, o ci sentiamo, out.
La possibilità di controllo della vita altrui, sbirciando foto, controllando parole, pensieri, opinioni degli altri, senza l’obbligo di intervenire, ci fa sentire al sicuro e potenti. Spiamo dal buco della serratura o ci esponiamo eccessivamente agli utenti connessi, selezionando l’immagine che vogliamo mostrare e che spesso non corrisponde alla realtà. Il top più indicativo dell’onnipotenza del controllo consiste nel cancellare con un click chi non gradiamo. Il contrario? Provoca spesso sudorazioni, crisi d’ansia e di riconoscimento.
Ma anche restare a guardare dietro le quinte provoca esaltazione. L’occhio gigantesco del “big brother” in cui ci rifugiamo sistematicamente per sentirci potenti, cosa impossibile nella realtà. Questo è l’aspetto più pericoloso che genera la massima dipendenza dalla rete, invertendo in modo psicotico il reale dal virtuale. Tantoché, a chi si ammala di Iad, può accadere di non distinguere la dimensione in cui si trova, scambiando per vera una dimensione immaginaria.
E infine la dipendenza dalla connessione in rete si può addurre al forte grado di emozioni che procura. La continua mole di stimoli visivi e i contatti al buio producono più endorfine di un chilo di cioccolata divorata in un battibaleno. É lo “Young Ace (access control encryption) Pattern”, una forma di “ecstasy” che induce a restare il più a lungo possibile nella rete e a distaccarsene, quando si è costretti dalla realtà circostante, malvolentieri. Ma è anche il craving, quel desiderio compulsivo e ingestibile che solo chi ha una dipendenza fortissima può generare.
Come accorgersi di essere diventati internauti borderline e tornare ad apprezzare le meno intriganti, ma sicuramente più vere e salutari abitudini della realtà quotidiana? Come sopportare, senza l’uso della rete/ecstasy, il vicino “rompi”, il datore di lavoro fascista, il canone Rai e Renzi che vuole cambiare la Costituzione?
Se si avvertissero quegli strani sintomi, citati all’inizio dell’articolo, è probabile che siamo in Iad e allora il lettino dello psicologo può essere una soluzione per disintossicarsi. Se invece il fenomeno della connettività non è perpetuo, siamo ancora in tempo a salvare le sinapsi, dedicandoci, oltre alla navigazione online, anche alla lettura di un buon libro o a salutari relazioni sociali.
Pillole di saggezza e concretezza, quelle dell’abitudine alla lettura dei libri, di un grande scrittore e filosofo, recentemente scomparso, Umberto Eco (leggi l’articolo). Che non aveva poi tutti i torti quando a Torino, nel 2015, nel corso di una lectio magistralis sulla comunicazione attaccando i social network, disse “I social della rete danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli”.
Scatenò l’inferno nei media, ma, probabilmente aveva ragione.

https://www.lacittafutura.it

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