di Letizia Lanza

È di pochi giorni fa una piacevole notizia giunta dall’astromondo: la sonda Cassini si trova sempre più vicina a Saturno, tanto da poter “vedere” il satellite Phoebe. A quanto pare, il fantastico viaggio procede per il meglio – di maniera che, salvo malaugurati imprevisti, una volta entrata nell’orbita dell’inanellato pianeta la sonda potrà studiare a fondo l’intero sistema (grazie anche all’ausilio della navicella Huygens, destinata a sua volta a raggiungere Titano).
Una bella notizia, senza dubbio alcuno. Sopra tutto per chi è fautore convinto di un’alternativa stellare all’ormai troppo strizzato mondo terrestre. E tuttavia, tale comunicazione è stata subito seguita da un’altra, assai meno consolante, sempre relativa al siderale spazio: le due sonde marziane sono ormai ridotte allo stremo (guarda caso, senza aver conseguito alcun risultato considerevole).
Com’è risaputo, l’ambiziosa avventura progettata dalla Nasa cominciò a concretizzarsi il 4 gennaio ultimo scorso, quando la prima sonda, Spirit, dopo un viaggio di quasi sette mesi e 500 milioni (!) di km., al modico (!) prezzo di 829 milioni di dollari (comprensivi, però, della gemella Opportunity … ), potè dischiudere sul Pianeta Rosso tutti i petali della sua capsula piramidiforme. Per un fortunato allineamento spaziale, infatti, mai verificatosi nel corso degli ultimi (!) sessantamila anni, Marte si trova attualmente a soli (!) 35 milioni di miglia dalla Terra: un’occasione d’oro, da non perdere a nessun costo. Così, tra il tripudiare dei tecnici del Jet Propulsion Laboratory californiano, una volta gloriosamente ammartate le due sonde si diedero a esplorare qualche pezzetto di superficie, alla ricerca dell’acqua.
Un’esplorazione, per altro, che non ha prodotto risultati ragguardevoli – giusto quanto lucidamente sostenuto (per esempio) da Margherita Hack, in una interessante intervista (Arcoiris TV, reperibile anche in rete): se pure, nel sottosuolo di Marte, può esserci acqua allo stato liquido (ma: in che quantità?) e tracce di vita organica (ma: a livello di batteri o anche sotto diverse forme?), tutto ciò, evidentemente, non è sufficiente a garantire possibilità di sopravvivenza per gli strabordanti terrestri. L’esigenza (più che legittima: ma: a quali prezzi?) di esplorare lo spazio, non elimina in alcun modo la necessità – sempre più impellente e tuttavia sempre più disattesa, anzi tutto per responsabilità della “Grande America” – di preservare l’insostituibile Pianeta Azzurro. Se infatti, com’è naturale, la tecnologia (ormai sofisticata all’inverosimile) ha portato enormi vantaggi, al contempo ha prodotto guai senza fine: e ad essi, necessariamente, si deve (dovrebbe!) porre rimedio al più presto.
Nessun trionfalismo, allora, sembra autorizzato dallo stato attuale delle cose – e quel che è peggio, neppure dalle già in precedenza assodate conoscenze. Ciò non ostante, al felice ammartaggio di Spirit le reazioni, com’è noto, furono di sconsiderato ottimismo. Per non citare che qualche esempio, al tutto entusiasta si dimostrò Ray Bradbury – autore di fantasia/fantascienza del secondo dopoguerra il più popolare anche presso chi, abitualmente, non s’interessa di questo filone (oltre che accreditato scrittore di racconti polizieschi e “d’atmosfera”).
Secondo Bradbury dunque – innamorato del pianeta color del sangue fin dall’età di nove anni (al punto di ambientarvi il famosissimo Cronache marziane – ovvero una geniale trasfigurazione fantascientifica di malinconie, emozioni, scenari tipicamente umani, pubblicata nel 1950) – se adesso, finalmente, noi terrestri andiamo su Marte, è per assolvere un preciso «obbligo» (sic) nei confronti dell’universo. Perché «è così meraviglioso il mistero della vita, è così fantastico … Dopo tanto caos, dopo tanta attesa, sulla Terra bombardata di lampi è cominciata la vita primitiva, il vasto teatro del miracolo sul nostro pianeta. Non abbiamo idea di come sia successo ma è successo: improvvisamente i minerali della Terra sono diventati vivi. Poi c’è voluto un altro miliardo di anni perché le forme primitive di vita si mettessero a nuotare verso il sole, sviluppassero un occhio, un’ala, l’uomo. Ed eccoci qui, e cosa siamo? Siamo il pubblico di cui l’universo ha bisogno per essere visto». Da ciò allora – al di là di ogni prudente scetticismo – l’assoluta fiducia di Bradbury in un futuro extraterrestre dell’umana specie: «Non importa se troveremo o meno l’acqua o altri materiali. Noi siamo i marziani, non possiamo aspettarci di trovare la vita altrove, portiamo la vita con noi. Noi siamo come gli italiani di mezzo millennio fa, come Colombo e Caboto e Verrazzano: gli italiani hanno scoperto l’America … Noi siamo la nuova specie di italiani che andrà su Marte».
Una teoria, superfluo dirlo, quanto meno sorprendente. E tuttavia, l’83enne scrittore dell’Illinois non sembra nutrire dubbi di sorta: «Non possiamo vivere la nostra vita senza restituire il dono che dobbiamo all’universo per averci creato. Andiamo su Marte perché vogliamo sapere di più sul miracolo dell’universo che ci circonda. Non possiamo rimanere sulla Terra, sarebbe troppo noioso. E ci lasceremo alle spalle le guerre della Terra, così come quando siamo arrivati in America 500 anni fa ci siamo lasciati alle spalle le guerre e le futili politiche europee e abbiamo formato una nuova nazione. La stessa cosa succederà quando ci trasferiremo su Marte: ci lasceremo alle spalle le futili politiche di tutte le nazioni del mondo e diventeremo un’unica nazione. Ci vorrà tempo, ma comincerà a succedere nei prossimi cent’anni (!), e fra mille (!) anni avremo un nuovo mondo su cui andare a vivere» (intervista di Silvia Bizio su «La repubblica», 5 gennaio 2004).
Ricco di ardite speranze, insomma, il brillante scrittore fantascientifico. E, a dargli conferma, è intervenuto il Presidente Bush in persona. Il quale, perfino più ottimista di Bradbury, ha sostenuto che l’uomo, nel 2015, ritornerà sulla Luna con un nuovo vascello spaziale, per creare una base permanente e ripartire quindi, nel 2020, alla volta del Pianeta Rosso. Nel frattempo, forte dei successi conseguiti, l’inossidabile Yankee si preoccupava di stanziare i fondi (quanto mai cospicui, ovviamente) – e, sulla scia di tanto autorevole esempio, l’amministrazione statunitense concedeva a un’azienda californiana (Scaled Composites) e al suo vascello spaziale (consistente in un aereo razzo – SpaceShipOne – e in uno strano jet – White Knight – destinato a portare il velivolo in quota per poi lanciarlo), «la prima licenza per un viaggio sub-orbitale con equipaggio a bordo, un significativo passo verso l’apertura del volo nello spazio a privati» («Leggo», 9 aprile 2004).
E adesso? Ora che tanto rosee prospettive stanno miseramente svanendo all’orizzonte degli Americani (e degli altri, anche per causa loro malcapitati, abitanti della Terra), come non pensare a un’ennesima, criminale mistificazione?

Letizia Lanza

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