di Letizia Lanza
I. Come la rosa non conosce se stessa,
Tu ignori il tuo profumo.
Ma accanto a me l’altra sera ti sei messa.
E il mio dolore non lo dirò a nessuno.
II. Sei diventata flaccida e grassa
(Mi riferiscono gli informatori).
Davvero buffo, qui il tempo passa
Anche per gli angeli sterminatori.
M. Marchisio, Puzzona, mangiona
Che fin dai tempi più remoti e nelle più diverse civiltà lo stereotipo della femme fatale (anch’esso, è naturale, diversificato secondo il contesto) sia stato (sia), per l’immaginario maschile, inesausta fonte, al tempo stesso, di piacere e sconcerto, di attrazione e repulsione, di godimento e paura, è cosa nota. Da ciò probabilmente il tentativo, più o meno consapevole e riuscito, da parte di molti autori, i più vari per collocazione ed epoca, di disfarsi dell’ingombrante presenza, o comunque di limitare per quanto possibile il suo influsso malefico, svilendola e degradandola in svariate maniere. Così, per esempio, una delle immagini più basse, pesantemente lesive della femminilità trionfante è, com’è noto, quella dell’orrenda Tindaride, che Gabriele D’Annunzio presenta nel secondo libro delle Laudi: un’Elena sfigurata e cadente, una prostituta laida e sfatta dalla mala vecchiaia, che a stento riesce a strappare qualche moneta nel porto di Patre – dove gli equipaggi in libera uscita girano «per cupi / angiporti graveolenti» in cerca di meretrici. Ed ecco,
i marinai dal collo
ignudo, gli stradiotti
bracati, i battellieri
dal braccio di bronzo e dal dorso
incurvo, le flosce bagasce
dalle guance rosse di fuoco
vile, i bardassoni più molli
delle femmine esperti
in muovere l’anca, la schiuma
del porto, la melma del trivio,
i nativi e i metèci
e gli stranieri approdati
da un’ora, accesi di foia,
tumultuavano al lume
fumido delle lucerne
grasse, tracannavano il vino
malvagio e la mastica arzente,
mercavano copula e lue
per mezza dramma. E gli sguardi
come i getti della saliva
lucean sul carnaio in fermento (Maia 1221-1241).
Una scena che gronda bruttura e squallore, non c’è che dire. Un fondale miserando e fetido – contro il quale tuttavia, d’improvviso, gli infoiati ciurmatori intravedono un’ammaliante prostituta, «formosa, nel fiore degli anni» (1244), che «in penetrale / remoto, su candido letto» (1249-1250) è preda esclusiva di doviziosi clienti: «lo straniero / opulento, il navarca / magnanimi, o l’alto signore / dei latifondi patrensi» (1251-1254). E proprio qui, nella caligine avvinazzata del tristo luogo, si mostra pure, vieppiù abbru(t)tita dal confronto, l’immagine postribolare di Elena – «serva millenne» (1332) della meretrice di Pirgo:
Repente
brancolò nell’acre
tènebra ver noi una mano
ignota. Qual voce d’antico
sepolcro imprecava per fame
novella? Ristemmo, perplessi.
Al breve bagliore
scorsero i nostri occhi mortali
l’eterna tartarea faccia
d’Atropo che taglia lo stame,
dell’inevitabile Mira?
Sparvero l’inganno dell’ora
presente, l’angustia del luogo,
il turpe clamore degli ebri;
e tutti i secoli muti
che avean travagliato quel volto,
incanutito quel crine,
sfatto quella bocca vorace,
smunto quel seno infecondo,
curvato quel dorso di belva,
scarnito quell’avida branca,
sepolto nell’orbita cava
quell’occhio ancor semivivo
senza cigli ingombro di sanie
e lacrimoso di sangue,
i millennii d’onta e di lutto
oppressero il cuor mio vivente.
E l’anima mia nel mio cuore
tremò d’infinita tristezza,
come innanzi all’aspetto senile
d’una già cognita gente,
di sùbito apparsomi in fondo
al funebre specchio dei tempi.
Ma risero i cari compagni.
E nell’artiglio proteso
della famelica lèna
io posi ridendo una dramma.
Mormorò ella parole
buie tra le vacue gengive
con la sua voce di tomba.
La grande sua bianca criniera
si dileguò nella notte (1280-1323).
Perspicuo, nella pagina dannunziana, il ricorrere di un antico quanto diffuso topos – quello della vecchia cortigiana giunta al tramonto e ormai inibita a ogni pretesa – del quale numerose sono le riprese in ambito greco, sopra tutto negli epigrammi di età ellenistica e imperiale. Tra gli altri, un eloquente esempio è in Meleagro:
Timarion, un tempo ben lavorato sciabecco, non può più reggere il remeggio di Cipride. Il suo dorso è ricurvo come il pennone sull’albero, i suoi capelli bianchi sono gomene disfatte, pendono flaccidi i seni, come vele sgonfie, un intrico di rughe sul ventre che trema. In basso la sentina è tutta invasa dall’acqua, sciaborda il mare nella stiva, il rollio scuote i ginocchi. Sventurato chi, vivo, varcherà la palude d’Acheronte montando sopra questo vecchio relitto (AP 5. 204, trad. di G. Guidorizzi).
Nel graffiante testo meleagreo, superfluo dirlo, si sprecano i doppi sensi: con il «remeggio» a indicare le prestazioni professionali della prostituta; lo «sciabecco», veloce naviglio, atto a richiamare la pirateria d’amore e, nel suo significato aggiuntivo di «carro da corsa», a ironicamente evocare erotiche cavalcate; la «palude d’Acheronte», a mettere alla berlina il motivo della navigazione d’amore, che in questo caso non avviene su mari tempestosi e ribollenti come le passioni (vd. epigrammi 107; 117) né su onde luminose, simbolo di placido, appagato sentire (epigramma 25), bensì sul ristagno miasmoso, anzi funereo, dell’infera palude.
Un topos ben conosciuto, dunque. E tuttavia, nell’immagine di Elena presso D’Annunzio, carico di inusitato, difforme peso a motivo della alfine liberatoria (per l’Immaginifico anzi tutto, quindi per l’uomo in generale) degradazione oscena del troppo potente, ineguagliabile stereotipo. Se è vero infatti che, agli occhi del Vate, la donna è in grado si sfoderare una pericolosa carica di aggressività (o incontrollabile isterismo?) di maniera che l’uomo vacilla disponendosi addirittura a una, per quanto ingrata, sottomissione, che cosa di meglio che il riequilibrio da lui seraficamente (crudelmente) ottenuto con cotanti versi? Un’operazione di ostentato cinismo, senza dubbio alcuno: con la quale per altro sembra concordare in pieno un giovane poeta contemporaneo – il già citato Mario Marchisio.
Sempre umorale e aggrondato, spesso sferzante, talora velenoso (se non velenosissimo), l’autore torinese esprime volentieri la sua vena in brani come questo – al vetriolo:
Nacque ad un parto con le Furie andròfone
E in breve le spogliò della corona
Che ancora spande amaro lume ctonio.
Come sentenzia il vescovo d’Ippona,
La femmina è soltanto un insaziabile
Utero dal perenne mercimonio.
Folle chi smania per la sua dolcezza:
Più folle se non fiuta in quella maschera
L’Alfa e l’Omega di spietatezza.
Non ama; ammira, forse, chi la sprezza;
Calcola sempre, simula, farnetica
Languori, ma è regina di durezza.
La femmina (non l’uomo) ha “senso pratico”:
Il che, detto alla spiccia ed alla buona,
Significa: più iniqua del demonio (Marii Macrophili de femina libellus).
Ebbene, di fronte a versi così cattivi, che altro se non attribuire al provocatorio poietes la palma d’oro della misoginia?
Letizia Lanza
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