di Giuseppe D’Avanzo

LE COSE sollecitano un ragionevole presagio: moriremo intercettati e felici. C’è molto frastuono – è vero – ma non succede niente, in fondo. Non c’è da preoccuparsi. Come sempre quando si parla di politica e giustizia, siamo divisi in Polemici e Apologetici e recitiamo l’ordinaria, insensata commedia tenendoci ben lontani dal cuore del problema. Che, coram populo, a quanto pare è: intercettare, sì o no? E come, con quale intensità? Che farne di quelle frasi rubate? Pubblicarle tutte o con modica quantità? Come punire gli eccessi? Con il carcere, forse?
Che abusi ci siano, tra la bulimìa istruttoria e il voyeurismo mediatico, nessuno lo nega. Ma – si dice – ben vengano anche gli abusi, se ci svelano lo stato di salute del nostro Paese. Anche un campione dei diritti come Marco Pannella si adegua. Le intercettazioni, dice, “possiedono una forza invasiva potenzialmente democratica: quei colloqui danno un grande contributo alla conoscenza delle cose che accadono”. Chi può negarlo? Ha ragione Pannella. Ma è proprio, in questa triste logica, che affiorano un paio di questioni irrisolte, molto più serie dell’ardore sessuale-estorsivo di un minuscolo potente. Non scuote alcuno che la comprensione del nostro Paese debba essere affidata all’origliamento. Non c’è chi si chieda perché ci siamo ridotti così, con l’occhio al buco della serratura per osservare che cosa accade dalle nostre parti.
Ammesso, poi, che sia vero che le intercettazioni ci facciano scoprire la realtà. La potenza rivelatrice delle intercettazioni è soltanto un luogo comune utile a mediocri commedie. Le intercettazioni, in realtà, non ci dicono nulla di più di quanto non sappiamo già. Permettono di punire, non di sapere. Non c’era bisogno di origliamenti per sapere che abusivamente il governatore della Banca d’Italia tenesse bordone a Fiorani nell’assalto ad Antonveneta. Che il presidente dell’Unipol consultasse, tra un affare e l’altro, il segretario dei ds. Che la giostra della plusvalenze di Stefano Ricucci fosse moneta falsa. Che l’arbitro De Santis “lavorasse” per la Juve. Che Moggi condizionasse il campionato e Galliani l’affare dei diritti televisivi. O che “il divano” fosse il miglior trampolino di lancio per soubrette, veline e letterine.
Si fa fatica a credere che in giro ci sia un candido che ha scoperto come vanno le cose – nel sistema bancario, negli affari, nel calcio, alla Rai – soltanto dopo aver letto quelle intercettazioni. Sapevamo già prima. Tutti, tutto. Sono le ragioni di questa consapevolezza impotente, dunque, che vanno vagliate. Interrogano la debolezza della politica nel dare risposte alle degenerazioni. Ci mostrano il rifiuto (della politica e della società) di avvertire anche soltanto la responsabilità di far fronte al degrado. Danno un senso non disprezzabile, addirittura necessario, infine, alla straripante attività della magistratura (anche intercettatoria).
Quel che accade in queste ore, non sfugge allo schema, ormai noto da Mani Pulite in poi. Osservate Gianfranco Fini. Ha intorno una moglie e una cognata che trafficano in appalti della sanità regionale; un segretario personale che lubrifica la macchina delle concessioni pubbliche; un portavoce che copula nella stanza accanto a Palazzo Chigi, dopo avere saputo che uno del suo partito (del partito di Fini) ha truccato le carte alla vigilia delle elezioni contro gli avversari politici. E come reagisce il leader di An? Si irrita per le intercettazioni. Non per la meschina e dubbia compagnia di cui si è circondato e di cui è il capo assoluto. Chiede rispetto e solidarietà e, curiosamente (o naturalmente), li ottiene. Anche dagli avversari politici. Gianfranco Fini pare non avvertire (ma nemmeno i suoi avversari) la sua personale responsabilità nella catastrofe dei comportamenti etici e pubblici della combriccola che lo assiste. È l’evidenza più imbarazzante di questa storia. Anche perché Fini non è solo in questo atteggiamento. L’elenco può essere lungo. L’Ifil non avverte la responsabilità delle manovre di Moggi. La comunità degli affari, degli intrighi di Ricucci. Il parlamento, di una legge sul risparmio che ha protetto Fazio, e dubito che, dopo lo smarrimento pre-elettorale, il segretario dei ds non sia tornato a discutere dei destini della cooperazione con il nuovo presidente di Unipol.
Un esempio ancora più nitido ce lo offre quell’anima distratta di Claudio Petruccioli, presidente della Rai. Come tutti, anche Petruccoli sa che nel sottobosco politico c’è chi pretende uno jus primae noctis per indirizzare ai funzionari della Rai bellezze da ingaggiare. Ora che le benedette intercettazioni gli hanno fatto esplodere il problema sul tavolo, potrebbe (dovrebbe) sentire da “presidente di garanzia” la responsabilità pubblica di denunciare, correggere o almeno temperare quel meccanismo che ha avvilito la maggiore industria culturale del Paese a teatrino di tette, cuochi e commercio sessuale. Non è così.
Petruccioli, impegnato nella battaglia del potere per la direzione generale, non trova il tempo per dire una sola parola su come intende impedire, da oggi, che la sua azienda continui a essere, nelle stanze più illuminate, una “casa malfamata”. In questo vuoto di parole, di gesti, di idee, di responsabilità e doveri pubblici c’è un nodo che si tarda a sciogliere ormai da due decenni: il sistema politico e sociale appare incapace di autoriformarsi e autoregolarsi. È troppo debole e contaminato per dare risposte politiche e soluzioni amministrative alle cause genetiche del suo degrado. È troppo “malato” per proteggere i meriti e le capacità, la concorrenza, la libertà, la correttezza dei comportamenti pubblici. È troppo fragile per rafforzare un sistema di controlli intermedi che sappia curarne la depressione. Di tanto in tanto così, il “lavoro sporco”, enfatizzato presso l’opinione pubblica dal discredito della politica, sarà affidato a giudici che, come è ovvio, finiranno per interpretare se stessi come i custodi della salute pubblica. Con il sostanzialismo che ne segue e che, a volte, tracima perché il potere punitivo ha sempre, come tutti i poteri, una vocazione ad espandersi oltre i limiti definiti dalle norme che lo regolano.
Questa politica che non riesce a rendersi presentabile – che pare non sapere nemmeno di doverlo essere – meriterà sempre l’intervento giudiziario, piaccia o meno agli appassionati del palio tra Polemici e Apologetici. Quindi, tranquilli. Moriremo, intercettati e felici. A quanto pare, è l’unico modo per tenere pulito il cortile di casa.

(23 giugno 2006- La Repubblica)

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