Mò vene Natale e nùn tengo denare
‘o meglio pizzo è ‘o fuculare.
Mò vene Natale ‘e renza ‘e renza,
‘o putecaro me fà ‘a credenza,
‘o canteniere me dà ‘o vino
facimme Natale n’grazia ‘e Ddio.
Mò vene Natale e nùn tengo denare
me fum ‘na pippa e me vaco a cuccà.
A mezzanotte sparano ‘e botte
me metto o’ cappotto
e me vaco a vede’. (1)
Un tempo erano i pastori che arrivavano dal Sannio, dall’Irpinia o dall’Abruzzo per la novena dell’Immacolata, con le ciocie ai piedi ed i mantelli di pelle di capra, generalmente in due, uno che suonava la zampogna e l’altro la ciaramella, ad annunciare il Natale a Napoli.
Nelle case era già pronto il presepe e gli zampognari, in cambio di qualche soldo, entravano ed affascinavano con la loro melodia sia gli adulti che i bambini, terminando la novena con la frase Sia lodato Gesù Cristo, a cui si rispondeva in coro: Sempre sia lodato!
Nelle strade c’erano le bancarelle con le statuine per il presepe, il muschio, il pungitopo, i fili colorati, le luci multicolori, la neve artificiale, ma anche quelle che vendevano fuochi d’artificio, giocattoli e dolciumi, mentre sempre ci s’imbatteva in qualche Babbo Natale che proponeva una fotografia con i bambini, sotto lo sguardo benevolo della venditrice di caldarroste con le mani inguainate in pesanti mezzi guantoni di lana, che lasciavano scoperte parte delle dita violacee per il freddo, e lo scialle doppio adagiato sul cappotto rattoppato.
I mercatini rionali, con i banchi addobbati di festoni e luminarie, si riempivano di prelibate leccornie natalizie, come i salumi, i sottaceti, i fichi secchi, le mandorle, i panettoni ed i dolci tipici locali.
I venditori di pesce, nel chiasso delle voci, lanciavano il grido di vendita, Pesce, ‘o pesce frisco sta ccà!, la cosiddetta “chiamata”, per invogliare all’acquisto dei frutti di mare e dei pesci misti disposti come quadri di secentesche nature morte, mentre nelle tipiche vasche azzurre illuminate a giorno, o nelle tinozze piene di acqua corrente, nuotavano e si contorcevano le anguille e i capitoni, che talvolta seminavano il panico riuscendo a fuggire e rifugiandosi contro la ruota di una macchina in sosta o in un angolo di marciapiede, prima di essere riacciuffati e trovare ingloriosa fine nella padella d’olio bollente.
E così, tra i regali e le spese alimentari, non senza aver fatto rifornimento in notevole anticipo di tricchi tracchi, bengala, girandole e razzi vari, si approdava al Natale, con l’immancabile letterina sotto al piatto e l’inevitabile poesia cantilenata dal bambino di turno, in compagnia dei nonni e dei parenti, in allegria e sincera disposizione d’animo alla bontà, tra il poetico presepe animato dalla Sacra natività, dagli angeli e dai vari personaggi, fornito di cascatelle di vera acqua, dovuti agli ingegnosi effetti speciali del nonno (la pompetta seminascosta tra il muschio) e l’albero dai fili d‘oro, d’argento e multicolori, le catenelle incrociate e le luci occhieggianti tra i rami.
Infine si faceva onore alla tavola con il ricco e vario menù natalizio napoletano, con piatti antichissimi e semplici come la minestra maritata (2), il brodo di gallina, i vermicelli con le vongole o con le cozze, la pizza con le scarole, l’insalata di rinforzo con i sottaceti e le olive bianche e nere, i broccoli al limone, il baccalà fritto, i raffinati dolci di pasta di mandorle, rococò, raffioli, susamielli, nasprati, mostaccioli, e i deliziosi struffoli imbevuti di miele con confetti allegramente colorati. Immancabile e fondamentale era la presenza del capitone! Avete presente quella specie di grossa anguilla femmina, che può raggiungere un metro e mezzo di lunghezza e sei chili di peso, simile ad un serpente come il pitone, lunga, nera, strisciante, dalle movenze sinuose come quelle di un’odalisca, ondeggiante nelle vasche azzurre, suggestivamente illuminate di notte, in vendita nei mercatini? Ebbene, a Napoli era un vero e proprio rito, da ripetere puntualmente ogni anno perché nelle case se ne doveva sentire l’odore… altrimenti non sembrava Natale.
Nei giorni precedenti la festa praticamente la città pullulava, nei mercatini rionali e nelle botteghe, di questo pesce-serpente, che si arrotola, guizza, sguscia e si contorce, che doveva giungere ancora vivo nelle mani delle casalinghe che lo pulivano bene, lo tagliavano a pezzi, lo infarinavano ed infine gli davano la morte friggendolo nell’olio d’oliva bollente, dove quello, poverino, continuava ancora a dibattersi in un ultimo slancio vitale.
Il capitone era talmente importante che un anno Carmine, impossibilitato a tornare a Napoli da Bergamo, dove si era trasferito (ahimè, emigrante!), fu costretto a consumarlo d’estate, il 28 agosto, in piena calura estiva, perché suo padre, pur di celebrare il rito col figlio, non aveva esitato a congelare mesi addietro il capitone, scelto personalmente con molta cura tra migliaia e migliaia.
A Carmine, arrivato col caldo canicolare, dopo gli abbracci, i baci, le lacrime e la commozione, con un guizzo furbesco negli occhi il padre assestò una pacca sulla spalla e, tra mistero e complicità, annunciò:
-Carminiè, tengo ‘na sorpresa!-
E così, dalla cucina della popolare via Arenaccia di Napoli, in piena estate, si sentì sprigionare l’inconfondibile effluvio del capitone fritto, che si diffuse per tutta la casa, s’insinuò attraverso le fessure e gli interstizi ed invase tutto il palazzo, probabilmente l’intera città, e, volendo esagerare, attraversò la penisola fino ad arrivare addirittura a Bergamo.
Trionfante suo padre lo portò a tavola e quando, pur se riluttante, sotto lo sguardo commosso del padre, Carmine stava per addentarlo, lui lo bloccò, gli strappò la forchetta col boccone e, con la solennità di un sacerdote al momento della conversione del corpo eucaristico, la sollevò in alto e sentenziò:
-Aspetta, assaggio prima io!-
Miracolosamente la lunga congelazione non aveva intaccato la bontà del prodotto ittico, e allora ordinò:
-E’ buono. Mangia! Mangiamo!- Ma, mentre si accingevano a consumare il rito, arrivò l’inopportuna bussata di porta dell’immancabile vicino impiccione che chiese:
-Nhe, ma che è Natale? Io sento addore d’ ‘o capitone!-
A Carmine, già riluttante, per poco il capitone non andò di traverso ma, da bravo figlio, abbozzò un mezzo sorriso al padre e al vicino e poi, d’un colpo solo, per amore del padre, e per quiete familiare, eroicamente lo mandò giù senza battere ciglio.
E dopo il cenone si giocava a tombola: nonni, genitori, nipoti, zii, cugini, fratelli, sorelle, amici e conoscenti, tutti riuniti intorno al grande tavolo, prontamente sgomberato dalle mani femminili, precedentemente imbandito di ogni ben di Dio, dove, in commistione di sacro e profano, accanto al presepe splendente, preparato con tanta cura per celebrare la nascita del Bambino, tra un Quant’è bello ‘o bambeniello, e un Sento addore d’o capitone, era stato consumato il rito dell’abbuffata.
Accompagnato da risa e sorrisi, da grida e gridolini, battimani dei più piccini ed euforia degli adulti un poco su di giri per l’effetto dell’asprino fresco e del limoncello gelato, nell’allegria generale si prendeva posto, si stendeva il cartellone, si preparavano le cartelle, si faceva la conta dei soldi, si disponevano i mucchietti di bottoni, fagioli e ceci secchi, pezzetti di coccio e di ceramica dei piatti rotti durante l’anno, adibiti all’uso di segna numeri, e, agitando magicamente ‘o panariello, si cominciava a dare i numeri.
Ed allora, con il cartellone ben spianato sulla tavola, la personalità più autorevole della famiglia accompagnava l’estrazione con battute e “smorfia”, cioè l’interpretazione del sogno e sua espressione numerica; tra risate e commenti, estraeva il numero dal sacchetto e guidava all’ambo, al terno, alla quaterna, alla cinquina e all’agognata tombola.
Venivano estratti 22 ‘o pazzo, 30 ‘e palle d’ ‘o tenente (immancabili a questo punto le finte proteste scandalizzate delle mamme più ammodo che esclamavano: Ce stanno ‘e creature annanze!), 77 ‘o carcerato… no ‘e corne, 85 l’aneme ‘o Priatorio, 25 Natale, 47 ‘o muorto e 48 ‘o muorto che parla, per cercare di realizzare, passando per la trafila dell’ambo, del terno, della quaterna e della cinquina, la sospirata tombola che avrebbe coperto tutti i numeri delle cartelle ed avrebbe fruttato un modesto gruzzoletto ed una piccola soddisfazione. Legata da sempre alla scienza della smorfia, la tombolata collettiva natalizia diventava pure l’occasione per abbandonarsi a confidenze e raccontare un sogno particolare; uno diceva:
-Stanotte ho sognato un gatto-
E qualcuno rispondeva:
-Domani giocatevi il 3, se miagola 72 e se è nero 17, ma se gioca con il topo vi dovete giocare il 31 e se, invece, gioca con la gatta allora è 44-
E poi c’era l’immancabile litigio, bonario s’intende, per la quaterna mancata per un soffio oppure perché, durante l’estrazione, le voci dei commensali avevano coperto l’annuncio, e infine, quando la cosa sembrava un pochino degenerare, vuoi per gli alcolici che cominciavano a produrre l’effetto, vuoi per la stanchezza e per il sonno incipiente, ecco che arrivava qualche donna col caffè ed esortava gli animi a calmarsi e a prepararsi per la Santa Messa.
Immancabile, a questo punto, l’uscita dell’intellettuale del gruppo, magari lo zio che era arrivato a finire il liceo, che, facendo sfoggio di cultura dotta e di cultura popolare, concludendo declamava:
-Roma se santa sei, perché crudel sei tanta, se dici che sei santa, certo bugiarda sei… Jamme bello, appena apre il bancolotto fatevi ‘sta giocata: 66,70,16,60 e 6. Sono numeri sicuri!-
La tombola finiva e, riconfortati nello stomaco, corroborati dall’ottimo vino, rallegrati dalla buona compagnia e rincuorati nello spirito, perché quella era stato proprio una bella serata, nell’abbraccio collettivo del calore dei parenti e degli amici, finalmente i festeggiamenti familiari cedevano il posto a quelli religiosi e s’andava in chiesa tutti in pace.
E così, tra i sorrisi e gli echi provenienti dalle strade degli spari dei fuochi d’artificio, di chi già faceva le prove per i festeggiamenti del Capodanno, si arrivava alla mezzanotte, il magico momento religioso in cui il Bambino veniva collocato nella mangiatoia del presepe e nelle chiese si celebrava la Santa Messa notturna.
Negli occhi stupiti e un po’ assonnati dei bambini, ma anche degli adulti, allora avreste potuto davvero leggervi l’armonia: era Napoli di ieri!
Note
1) ignoro la provenienza di questa canzoncina popolare che si usava cantare ai bambini nel periodo natalizio; unica mia fonte certa è il mio nonno materno, dal quale la appresi.
2) “menesta mmaretata” o “pignato maritato o grasso ”, minestra antichissima a base di cavoli, prosciutto e lardo, lodata da Giulio Cesare Cortese nel suo “Viaggio in Parnaso” (Io faccio chello ch’aie tu ‘ncore perché le cose cchiù secrete io spio, saccio ca tu si morto, ed allascato pe no bello pignato mmaretato) e da Giovan Battista del Tufo (O che pignato raro, così sempre da noi tenuto caro), ma anche dal Del Tufo e dallo Sgruttendio. (Il racconto dei racconti, G. Basile).
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