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Le profezie inascoltate di Giorgio Nebbia
Alla vigilia delle fastose celebrazioni dei 150 anni dell’”unità” l’Italia è divisa in due da una frana fra Foggia e Benevento, nello sconosciuto paesino di Montaguto. Da un mese e mezzo sono interrotte le comunicazioni ferroviaria fra la costa tirrenica e quella adriatica, al di sotto di Napoli e di Pescara, fra la Puglia e Roma.
In un momento di rabbia per quanto sta avvenendo mi chiedo se vale la pena di continuare a scrivere sempre le stesse cose, inascoltate? Scusate lo sfogo, ma non ho nulla da aggiungere a quanto scrissi dieci anni fa:
“L’uomo ha perso la capacità di prevedere e prevenire: finirà per distruggere la Terra”. Se dipendesse da me, scriverei questo avvertimento all’ingresso degli uffici pubblici, delle scuole e delle Università, perché nella incapacità di prevedere e prevenire vanno cercate le vere radici delle sventure e dei dolori che colpiscono tanti milioni di nostri concittadini oggi nella valle padana, ieri in Calabria, ieri l’altro in Campania e poi in Versilia, e in Valtellina, e indietro di questo passo. Così come nella capacità di prevedere e prevenire vanno cercati i mezzi per evitare futuri dolori.
Poche cose sono ben note e certe, come il moto delle acque: 150 miliardi di metri cubi di acqua, di quella che cade dal cielo, scorrono ogni anno sulla superficie del territorio italiano, dalle montagne e colline, lungo le valli, nei corsi di acqua di pianura, per tornare al mare; la velocità dell’acqua dipende dalla intensità delle piogge, dalle condizioni del suolo, da quello che le acque incontrano nel loro moto. Se i fianchi delle vali sono coperte di vegetazione l’acqua perde una parte della sua forza e scivola sul suolo; se le acque incontrano il suolo nudo, o coperto di strade di cemento, aumenta la loro velocità e la forza dell’acqua in movimento si manifesta asportando terra e pietre e portandole nelle zone di pianura.
Nel suo moto lungo le valli e nelle zone collinari e di pianura l’acqua, nei millenni, ha “disegnato” le sue strade, delimitando degli argini naturali e predisponendo, nelle zone pianeggianti, degli spazi (le golene), compresi fra il greto e gli argini, in cui potersi espandere quando la portata del fiume o del torrente dell’acqua aumenta in seguito alle piogge o alla fusione delle nevi.
“Purtroppo” le zone pianeggianti e golenali sono anche le più comode e le più appetibili per costruirvi villaggi e città e strade, per trarne fertili campi, per tanti interventi umani “economici” che però impediscono o intralciano il libero moto delle acque; per arginare tale moto gli spazi disegnati dalla naturali argini naturali sono stati sostituiti da stretti argini artificiali che accelerano e rendono più devastante il moto delle acque.
Così è cresciuta l’Italia: se guardate con attenzione le immagini delle zone alluvionate non fate fatica a vedere case e fabbriche e strade e ferrovie proprio sulle rive o addirittura sul greto dei fiumi; non c’è perciò da meravigliarsi se ad ogni pioggia più intensa l’acqua, non trovando degli spazi in cui espandersi e scorrere lentamente verso il mare, spazza via con rapida violenza gli ostacoli “umani”.
Dall’Ottocento in avanti sono state emanate leggi che prescrivono di non occupare gli spazi in cui l’acqua “deve” — per leggi della natura — poter scorrere liberamente; che prescrivono che non si devono edificare tali spazi; nei decenni recenti la “legge Galasso” vieta l’edificazione sulle rive di fossi, torrenti, fiumi, laghi e mare; la legge sulla difesa del solo del 1989 prescrive di pianificare l’uso del territorio sulla base del moto delle acque nei “bacini idrografici”, la legge emanata nel 1998 dopo le frane di Sarno, prescrive che le regioni indichino le zone a rischio per impedire che vi vengano edificate opere umane.
Tutte queste leggi sono rimaste inapplicate; anzi quando si è moltiplicata l’occupazione abusiva di gran parte delle zone in cui la natura “non vuole” che si frappongano ostacoli al moto delle acque, governi e amministrazioni compiacenti hanno condonato o ignorato gli abusi.
Rispondendo in Parlamento alle interrogazioni sulla tragedia di Soverato in Calabria — ricordate ? poche settimane fa un torrente ha spazzato via un campeggio, regolarmente abusivo, proprio nel greto di un torrente — il Ministro dell’ambiente ha detto (cito letteralmente): “sono state individuate 4561 situazioni ad elevato rischio di frane e alluvioni, che interessano 2078 comuni”. In centinaia di comuni non sono state effettuate misure di salvaguardia; in altri le misure di salvaguardia non erano conformi alle disposizioni. E in queste condizioni vi meravigliate delle alluvioni del Piemonte o della Lombardia, o di quelle che forse colpiranno, domani, le nostre stesse case?
In questo momento di dolore nazionale — che aggiunge nuovi dolori a quelli, tanti, dovuti alle frane e alluvioni dell’ultimo mezzo secolo — credo che noi come cittadini e i nostri governanti, dovremmo prendere solenne impegno di usare in futuro il territorio, la nostra terra, nel rispetto delle leggi umane e soprattutto nel rispetto delle leggi della natura.
La stampa, i mezzi di comunicazione, le scuole, potrebbero ben abituare i ragazzi e i cittadini a riconoscere dove si trovano gli ostacoli al moto naturale delle acque, che ci siano o no piogge intense; suggerirei al Ministero dell’ambiente di pubblicare al più presto l’elenco delle 4561 situazioni italiane ad elevato rischio idrogeologico, di far circolare tale elenco negli oltre duemila comuni interessati, in modo che non siano autorizzate altre costruzioni ed opere che possano frenare in futuro il moto delle acque. Quante, di tali situazioni a rischio si trovano nel Mezzogiorno, in Puglia, nel Molise, in Basilicata ? quante nel bacino dell’Ofanto, del Fortore, del Bradano ? quante si trovano in Calabria, in Campania ? e dove esattamente ?
Conosco bene l’obiezione ! Rispettare i vincoli imposti dalla natura (e perfino da alcune delle leggi italiane) significa impedire la costruzione di alberghi e quartieri e zone turistiche, significa spostare fabbriche e discariche di rifiuti, significa investire pubblico denaro per pulire il corso dei torrenti, dei fiumi e dei fossi, rimuovere tronchi e ostacoli; significa rimuovere gli argini artificiali. Significa dare soldi agli alluvionati alla condizione che i nuovi edifici non vengano ricostruiti dove erano prima, quando rappresentavano un ostacolo al moto delle acque.
Prevedere e prevenire significa accettare il dolorosissimo dovere e coraggio di “dire no” all’avidità delle speculazioni e agli interessi economici immediati privati, nel nome dell’interesse collettivo, nel nome del diritto alla vita, nel nome del futuro. Avremo un giorno dei governi, nazionali e locali, dotati di questo coraggio ? capaci di proporre all’Italia un “nuovo corso” economico basato sulla lotta all’erosione del suolo, sulla regolazione del corso dei fiumi, sulla difesa delle risorse idriche — come quello con cui Roosevelt, negli anni trenta del Novecento, fece uscire l’America dalla grande crisi?
Giorgio Nebbia
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