un incontro con Fadela Amara
di Amal Oursana
Fadela Amara
Una sera che mi trovavo a Parigi, sono andata al cinema a vedere un film, marocchino: “Le grand voyage”. Appena entrata in sala mi sono stupita nel vedere che c’erano solo tre persone. Mi sono ancor più sorpresa quando ho scoperto che erano una madre e i suoi due figli. Abbiamo parlato in arabo. «Sono venticinque anni che vivo in Francia e questa è la prima volta che metto piede in un cinema, sono tutti così piccoli?» mi chiede la signora.
Prima che il film cominci, si aggiungono altri tre ragazzi arabi e una giovane coppia. Siamo nove in tutto. Ero già eccitata per questo. In Italia, quando vado a vedere film arabi, non trovo arabi a vederli. Ancora non siamo arrivati ad avere una coscienza della nostra immigrazione e della nostra cultura, per un confronto non solo interiore. Beh, in Francia – di sicuro anche altrove – questo è già in atto.
L’Italia ha una storia di recente immigrazione e deve considerare il percorso degli altri paesi europei come modello: certo non da copiare, ma da studiare, per non ripetere gli stessi errori. Per esempio, quello della formazione dei ghetti è un problema che continua a riproporsi. Ma c’è anche qualcosa di buono, per esempio una più diffusa sensibilità.
Si sa che i ghetti tendono a formarsi quasi con la stes- sa spontaneità con cui si cerca di sentirsi a casa. Si tratta semplicemente di non favorirli.
Nelle biblioteche francesi ho trovato libri che testimoniano un lungo lavoro di integrazione, sia sul piano artistico che su quello politico-sociale. E quel che mi rende entusiasta è che gli autori sono i protagonisti dell’immigrazione. Purtroppo sono in pochi a conoscere questi libri, si tratta di case editrici poco note… Rimangono confinati negli scaffali del grande edificio dell’Istituto del Mondo Arabo e in qualche biblioteca della periferia.
Ho incontrato associazioni impegnate nel favorire il dialogo in un paese pluralista come “Barakette” e “Stop violence”, la cui presidentessa si chiama Malika Mekellem, costretta a fermarsi per un po’ a causa delle sollecitazioni del governo attuale.
Fadela Amara è, invece, la presidente di “Ni putes ni soumises” (né prostitute né sottomesse). Mi racconta che quando si trova a parlare in un dibattito dice sempre che è musulmana, perché «oggi è un fatto politico».
L’associazione, nata nel 2003, conta diverse sedi in Francia, ed è composta da uomini e donne impegnate nella lotta alla violenza all’interno della cité, ovvero i ghetti.
A quattordici anni, Fadela comincia la vita militante, spinta dalla necessità di trovare una voce per migliorare le condizioni del quartiere dove abita.
Nasce in Algeria, ma cresce in una città industriale francese, Clermont Ferrand. Prima di compiere diciotto anni, lotta assieme ad altri gruppi per portare i figli degli stranieri a rivendicare il proprio diritto di votare.
I giovani e nuovi francesi non votavano ancora per due ragioni, perché non avevano l’esempio dei genitori che, in quanto stranieri, non votavano, e perché si sentivano in bilico tra la Francia e il paese nativo.
S’impegna in scambi intercomunitari, per far uscire le donne, chiuse in casa.
Il 1983 è l’anno della “marche pour l’egalité des droites”, soprannominata la “marche des beurs”. Beurs è il nome che si usa tuttora per indicare gli arabi francesi. Nel 1985 nascono “SOS Racisme” e “Touche pas mon pote” (non toccare il mio amico) che lavorano nei quartieri, incentivando le proposte dei giovani e la musica Hip-hop.
Gli anni Novanta sono segnati da una forte disoccupazione che colpisce soprattutto la fascia degli immigrati. I padri non lavorano, i figli della cité si danno alla malavita e allo spaccio: sono loro a mantenere le famiglie. I padri scompaiono e sono i figli a dettare le regole. Si afferma la legge del ghetto.
A fronte di tutto il lavoro svolto, le condizioni delle donne nel quartiere regrediscono, sempre più severo diventa il controllo sociale, cresce la violenza dei fratelli contro le sorelle e diminuiscono le possibilità di uscire dal ghetto. Sono sempre più frequenti i ritiri delle ragazze da scuola: scuole che diventano veri e propri ghetti.
La Repubblica comincia a interrogarsi sugli errori fatti: le intenzioni sono buone, ma non vanno oltre a un certo punto. Nasce il comunitarismo e le divisioni etniche sono sempre più segnate. La terza generazione di immigrati non dice: «io sono francese di origine maghrebina», ma s’identifica con un’appartenenza religiosa che possa definirla meglio. «Io sono musulmano», dicono.
Si organizzano in partiti politici islamici e portano avanti progetti che non hanno niente a che fare con la Repubblica. Molti ragazzi si ritirano perché è un movimento forte, con troppe restrizioni.
Il velo. Anche quello fa parte di un progetto politico, che è quello di islamizzare il paese, abituare l’opinione pubblica al velo.
«Per me è un’aberrazione, un segno di oppressione», dice Fadela. «Siamo stati molto criticati, non solo dagli estremisti islamici e dagli esponenti politici di destra, ma anche da organizzazioni antirazziste e da alcune femministe. Ci hanno contestato, perché dicono che puntiamo il dito contro ragazzi che già appartengono alla fascia debole, più a rischio. Ma non possiamo permettere che continuino a esercitare la loro legge del più forte, meglio puntare il dito che essere passivi davanti alla violenza sugli omosessuali e sulle ragazze. Altri ci contestano di voler spogliare la nostra comunità delle proprie tradizioni e cultura. Io a questi rispondo che sono dei razzisti, perché la coscienza di cittadini che ricorrono alla giustizia non è un diritto di pochi privilegiati e che farlo non vuol dire perdere la propria identità. Sono dei razzisti perché vogliono lasciare immutate delle persone che si identificano con una cultura».
«Abbiamo avuto pressioni per interrompere la nostra attività, anche da parte delle autorità, che ci dicevano: “non preoccupatevi, lo facciamo noi il lavoro d’integrazione”. Non ci basta, perché purtroppo il loro lavoro di integrazione non scalfisce i ghetti».
«Nei dibattiti che organizziamo sentiamo parecchio consenso tra la gente ma è così poco abituata a non esprimersi e di questo la Repubblica deve tenerne conto. Lo dico sempre che sono musulmana, è diventato un fatto politico, li rassicura sapere che lo sono, che esiste una militante musulmana. Organizziamo incontri nelle scuole, nelle facoltà. Nelle case dei quartieri incentiviamo ogni forma d’espressione artistica».
Queste associazioni sono la testimonianza di persone che hanno il coraggio di staccarsi dalla propria comunità per fare una sana autocritica. Anche se può apparire violento, il nome e il puntare il dito su chi fa violenza all’interno del ghetto, è importante che avvenga. Sicuramente ci sarà un prezzo da pagare, che è la spaccatura. Ma lo sappiamo, le identità nascono anche dalle spaccature che qualcuno saprà ricucire.
Articolo pubblicato da Pipol – Integra
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