Screenshot 20240916 070050 Microsoft 365 Office - Niente si oppone alla notte di Delphine de Vigan, Mondadori, 2012

Recensione

Questo romanzo è opera di una scrittrice francese già famosa quando la madre, scrittrice mancata, si suicidò nel 2008, all’età di sessantuno anni. Che Lucile avesse nutrito propositi e speranze di pubblicazione si scoprì alla sua morte, quando la figlia Delphine rinvenne tra le sue carte risposte di rifiuto da parte di alcuni editori. La circostanza resta del tutto ininfluente, ritengo, se ci si mette alla ricerca, come fa Delphine, delle cause della morte della madre. Tuttavia pone un quesito a lei, come figlia. Infatti la sua scelta di diventare scrittrice potrebbe aver avuto a che fare con l’imponente spinta sotterranea di Lucile, col segreto sommovimento delle sue placche creative, di cui lei poté cogliere le vibrazioni letterarie solo quando la madre le sottopose un proprio manoscritto su Nébo – il vero amore, sempre in fuga, della sua vita –, prima di proporlo per la pubblicazione e prima di ricevere l’ennesimo rifiuto. Forse Delphine ha inconsapevolmente voluto realizzare il sogno inespresso di sua madre? Quel proposito tenace ma sottaciuto di Lucile – per timidezza, riservatezza, sfiducia di sé – di esporre, dichiarare, urlare i dolori e i traumi della propria vita manifestava la stessa volontà di vivere che poi lei negherà nel dissolvimento dell’esserci, nel nero di una notte dell’inverno parigino. C’è una notte anche nel titolo di questo romanzo, tratto dalla canzone di Alain Bashung Osez Joséphine del 1991, ma con un importante capovolgimento semantico e simbolico: la notte della canzone è una notte di speranza, di occasioni, di futuro.

La storia di Lucile è quella di una grande famiglia impiantata in Francia nel Secondo dopoguerra, lei terza di nove figli cresciuti come oggi sarebbe impensabile. Per illustrare fino a che punto il modello educativo di una volta fosse improntato a un fiducioso fatalismo, e fosse tanto diverso da quello iperprotettivo attuale, basti citare la decisione dei genitori – dopo la tragica scomparsa di uno dei figli a causa di un incidente in vacanza e dopo l’adozione di un maschietto e la nascita di un’altra bambina –, di prendersi una vacanza a Londra lasciando la piccola tribù a Parigi in balia di se stessa per un intero weekend. I più piccoli furono affidati ai più grandi non ancora preadolescenti, i quali, durante la notte, bussarono ai vicini perché l’ultima nata era scossa da un pianto inconsolabile che temevano potesse portarla alla morte – erano ancora turbati per la recente perdita del fratellino.

Lucile, dopo un’infanzia abbastanza meditativa ma trascorsa anche su set fotografici – era molto bella e con il suo ruolo di modella non di rado aiutava economicamente la famiglia –, partorì la prima figlia, Delphine, a diciannove anni e quindi lasciò il pigolante e caotico nido per andare a vivere col compagno. Dopo la nascita della seconda figlia, le cose non andarono come lei avrebbe voluto e forse alla radice dei fallimenti e dei disastri cui andò incontro c’era qualcosa d’indicibile: esperienze infantili traumatizzanti proprio riconducibili a quel focolare primigenio costruito e ricostruito nel tempo in luoghi diversi, come Parigi, Versailles, Pierremont. Fondamentali per la lettura e la comprensione degli eventi sono le figure della madre Liane, brillante, sportiva e inconsapevole (per limite o per scelta), e del padre Georges, duro, arguto e qualcos’altro di torbido, entrambi bohémien o, meglio, radical chic ante litteram. La vita di Lucile fu costellata d’insuccessi professionali e sentimentali, di malattie e deliri; la sua anima inquieta imparò presto che «tutto poteva capitare, soprattutto il peggio». Ma il suo è anche un personaggio pieno di luce, a cui la figlia scrittrice ha voluto donare un «sepolcro di carta»; tra tutti, il più bello. Per farlo, Delphine ha avviato una ricerca dolorosa e tormentata durata molti mesi, che l’ha portata a scandagliare i suoi ricordi più remoti e quelli di amici e parenti, a frugare tra carte in fondo a bauli polverosi, ad ascoltare vecchi nastri, a scontrarsi con comprensibili e meno comprensibili reticenze. Per scoprire infine che «ognuno ha conservato la propria visione degli avvenimenti che sono alla base della storia familiare». E che «queste visioni differiscono, talvolta si contraddicono». La ricerca di Delphine mi riporta a un’altra ricerca, di un’altra figlia su un’altra madre, anch’essa suicida. Parlo di Maria Grazia Calandrone sulle tracce della sua Lucia in Dove non mi hai portata, di cui ho parlato in questa stessa sezione del portale.

La volontà di vivere, che appartiene pure alle cose inanimate, che dà forma ai cristalli, che nella bussola orienta l’ago della calamita sempre verso il Nord, che attrae e respinge la materia, che genera la forza di gravità, può diventare il suo rovescio, perché vivere è soffrire. Lo sanno i filosofi e lo sentono le balene che si spiaggiano e le alci che si gettano giù dalle rupi. Lo sapeva e lo sentiva Lucile, che ha resistito per anni al canto suadente della noluntas. Conclude il libro la riflessione vera e scabra di un ragazzino di seconda media: «Nessuno può impedire un suicidio». Tanto basti a Delphine e a noi.

Cristiana Bullita

 

 

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