Multis ille bonis flebilis occidit…..
Morì, persona che poteva essere
pianta da molti buoni…………….
(Orazio)
Dopo la morte in mezz’ora il sangue si coagula, quattro ore dopo si produce il “rigor mortis” che rende le membra rigidissime, entro un giorno si produce la solfoemoglobina che conferisce un colore verdastro, dopo quattro giorni i microrganismi che trasformano i tessuti producono gas, nell’arco di quattro mesi il corpo perde tutti i liquidi e nel volgere di due-tre anni si dissolvono tutti i tessuti, lasciando solo le ossa… Sì, era accaduto questo anche alla sua nonna che giaceva in un sepolcro di pietra, ed ora Caterina aveva un sogno ricorrente: sognava di andare al cimitero, di girare intorno alla tomba, mentre intorno infuriava un vento da bufera. Osservava i fiori sciupati e avvizziti sulla tomba della nonna e piangeva ma ecco che, per prodigio meraviglioso, quella più tomba non era, ma un letto, e dentro c’era la nonna vestita di bianco come una sposa, che le sorrideva. Allora smetteva di piangere, però si rendeva conto che stava sognando e si diceva che non voleva svegliarsi, che voleva restare ancora un poco con lei, ancora un poco, ancora un poco… ma si ridestava, e la bianca veste della nonna altro non era che la tenda della finestra della sua camera agitata dal tiepido vento di scirocco.
Per anni, però, era stato un altro il suo sogno ricorrente, sempre uguale in ogni dettaglio; sognava che andava a casa della nonna e la trovava vuota, la cucina vuota, il letto vuoto… e si svegliava di soprassalto, in lacrime, tremante.
Per anni ed anni ed anni sempre lo stesso angosciante, frustrante sonno, finché poi una notte (si vede che il suo inconscio proprio non sopportava più tutto quel dolore) finalmente sognò che, nel congedarsi per andare all’Università, lei la tratteneva per le mani e le diceva:
-Salutiamoci adesso, perché non so se al ritorno mi troverai ancora–
Allora Caterina baciava la sua nonna, consapevole che quella era l’ultima volta che la vedeva viva.
*** *** ***
Napoli, quartiere popolare, via Arenaccia, casa del Risanamento (1), ampio cortile, cinque scale, A, B, C, D, E, secondo appartamento di sei, porte sempre spalancate sul pianerottolo continuamente vociante di donne pettegole e ragazzini indisciplinati: fu lì che Caterina visse l’infanzia, l’adolescenza e gli ultimi anni di vita della sua nonna.
La nonna, nata il 18 Aprile del 1895, figura minuta, splendidi occhi verdi e luminosi, corti capelli neri ravviati ordinatamente da un lato della testa, donna tenace, buona, orgogliosa, saggia dispensatrice di consigli. Come dicono “nonna” in Francia? Grand-mère? Fu davvero una grande mamma!
Silenziosa e riservata, ma pronta a confortare e a consigliare nel modo giusto; docile e sottomessa al marito, ma intelligente e dignitosa nell’esercizio del ruolo domestico; mamma e nonna orgogliosa e fiera, dei figli e dei nipoti.
Morì il tredici settembre del 1980; sulla sua pagellina di morte si legge: O voi che mi avete tanto amato, non guardate la vita che lascio ma quella che incomincio. Non piangete la mia assenza, sentitemi vicino e parlatemi ancora. Io vi amerò dal cielo come vi ho amati in terra!
Nella sua lunga esistenza vide il re, diversi papi, una dittatura, due guerre, il crollo della monarchia, il trionfo della repubblica, molti presidenti, il boom economico, i capelloni, la coca-cola, l’assassinio dei Kennedy, la nascita della televisione, il primo atterraggio sulla luna commentato da Tito Stagno, la guerra in Vietnam, il ’68, Nilla Pizzi, le minigonne di Mary Quant, Renato Zero, le Brigate Rosse, gli omicidii di Moro e del generale Dalla Chiesa, il film muto ed il sonoro, il bianco e nero e il TV color.
A Natale Caterina le regalava le stelle, quegli esili fiori con le brattee rosse e l’elegante gambo lungo, a Pasqua un ramo di mandorlo fiorito, per il compleanno un mazzolino di violette, per il suo onomastico un profumo.
La nonna amava molto la viola e la “Violetta di Parma”, dalla fragranza dolce e intensa che centellinava ed usava solo nelle grandi occasioni (il matrimonio di un figlio, il battesimo di un nipote, un anniversario, una Prima comunione, altrimenti il prezioso flacone giaceva in fondo al cassetto del comò, ad impregnare di sé candidi fazzolettini e pregiata lingerie ricamata a mano), e, quando la riceveva in dono, osava metterne subito due gocce ai lati delle orecchie, poi, unico suo gesto civettuolo, usciva sul pianerottolo perché anche le vicine ne sentissero il profumo.
In quel minuscolo appartamento del quarto piano sedevano spesso a parlare, nonna e nipote: la nonna con lo scialle di lana bianco e blu adagiato sulle spalle curve, le braccia conserte sui morbidi seni, Caterina sognante, con la gota poggiata sulla mano, piegata in avanti nella sua direzione, ben attenta all’ascolto, senza mai interromperla, perché le piacevano il tono della sua voce, i fatti del passato che le raccontava e il calmo distacco della narrazione.
Le raccontava episodi della sua infanzia, della giovinezza trascorsa ad ammirare il re e la regina con il loro scenario fantastico, dell’amore per il nonno, dell’infelice periodo del ventennio, della guerra e dei partigiani che sparavano dai tetti dei palazzi, del suo matrimonio celebrato nella più bella chiesa di Napoli, delle passeggiate in carrozza, dei figli, di come il nonno fosse stato bello da giovane e come lei lo avesse amato fin da bambina, di quanto fosse diversa la Napoli di ieri da quella di oggi, citando luoghi e persone noti o sconosciuti. E poi dava consigli e raccomandazioni, suggerimenti e saggi insegnamenti sui problemi seri e sulle cose spicciole della vita quotidiana.
Talvolta, mentre parlava, Caterina veniva come presa da uno strano rapimento, allora reclinava la testa sulle braccia incrociate sul tavolo e cominciava a guardarla con attenzione: osservava le rughe del viso e del collo, pieghe morbide e lente, poi le mani nodose e secche, gli occhi chiari così simili ai suoi, e pensava che da giovane doveva essere stata bellissima, con i capelli corvini raccolti alti sul capo, lo sguardo scintillante, il volto roseo e liscio, il busto slanciato in una candida camicia profilata di merletto, i fianchi stretti in una lunga gonna blu svasata al fondo, a passeggio per via Caracciolo, nella scia odorosa del suo profumo alla violetta confuso con la fresca brezza del mare partenopeo.
Nei giorni trascorsi a parlare intorno a quel tavolo la nonna le regalava tutti i suoi ricordi, patrimonio d’inestimabile valore che Caterina avrebbe per sempre gelosamente custodito nel suo cuore, in cambio lei le offriva il suo devoto amore di nipote ed il conforto della sua presenza, perché non restasse da sola ad intristire.
Purtroppo quei giorni meravigliosi non durarono a lungo…
*** *** ***
Nella sala di rianimazione dell’ospedale guardava il corpo sfatto della nonna, disanimata come una marionetta, alimentata a forza da tremule cannule simili ai fragili fili di un burattino, e pensava alla vita che se ne andava con l’ultima goccia di glucosio che la flebo travasava nella vena.
Il suo volto ora aveva il colore vago della rosa gialla quando appassisce, e le dita piccole e smagrite sembravano azzurrine.
Dolorosamente osservava tutto il suo corpo e rifletteva sulla nonna, su sua madre, su se stessa, su ciò che erano, che erano state, che sarebbero diventate l’indomani.
Un ricordo: Caterina bambina, febbricitante, ammalata, adagiata sul letto in ferro battuto dei nonni materni, tra le lenzuola profumate di lisciva ricoperte da un leggero copriletto ricamato a grandi rosa beige, l’odore del bucato confuso con quello della naftalina.
-E’ febbre di crescenza, così crescono i bambini! Tra una febbre e l’altra crescono e diventano più alti!- sentenzia la nonna riponendo il termometro, poi le sprimaccia il cuscino, pone nuove bende fresche sulla fronte calda, sorride rassicurante e, con solennità, le tasta la pancia con la stessa aria grave del sacerdote al momento dell’Ecce Agnus Dei.
Istintivamente Caterina allunga le gambe intorpidite senza riuscire a toccare il fondo del materasso e pensa: Devo ancora crescere!
Adesso guardava il grembo molle della nonna, quella parte fondamentale, sacra, della fisiologia femminile, che aveva accolto una vita e poi un’altra e ancora e ancora, e che, lentamente, era stato deformato dalle gravidanze, dai parti, dagli anni, dalla malattia, fino a divenire quel sacco vuoto che osservava. La parte più importante del corpo di una donna, il ventre entro cui tante vite avevano germogliato, ora era niente, ed anche le altre parti del corpo della nonna erano niente, e le mani, quelle stesse che avevano agito in modo frenetico, che avevano dispensato conforto, che avevano cullato, accarezzato, blandito ogni giorno della sua vita, erano perfettamente immobili.
Ecco cos’era che la sconvolgeva maggiormente: l’assenza del gesto, la totale immobilità!
Le rughe sul suo viso disegnavano una smorfia indecifrabile che faceva presagire un imminente distacco e le incuteva paura. Aveva paura, sì, paura che la sua bella nonna morisse, ed allora, per esorcizzare questo sentimento incontrollabile che cresceva sempre di più, di tanto in tanto si chinavo sul suo corpo e le raccontava, nel loro dialetto, i sogni, i progetti…A tratti un piccolo fremito le agitava le palpebre, sembrava comprendesse le sue parole che, purtroppo, non avviavano un dialogo, ma erano solo uno sterile disperato monologo.
Dentro di se Caterina già piangeva perché sentiva che s’affievoliva sempre più l’eco delle nenie e delle filastrocche che la nonna le cantava quand’era bambina.
Avrebbe voluto gridarle:-Forza, nonnina, cantale ancora!- Ma tutto questo era già il passato, il passato della nonna, il suo passato, un periodo di vita che scivolava via insieme con lei.
Di fronte a questa cosa indefinibile che era diventata la nonna provava l’impulso violento di scappare, ma sempre restava, ricacciava indietro le lacrime e riprendeva a parlare da sola.
Di tanto in tanto distoglieva un istante lo sguardo dal suo viso immobile e si guardavo intorno: tutto era così bianco, asettico, impersonale, lindo, immacolato, bianchi erano gli armadietti, le sedie, le cannule, i lettini, le cuffiette delle infermiere, le tazze ove, pietosamente, offrivano neri caffè, bianchi i fiori di plastica, indubbiamente di pessimo gusto, in quest’anticamera del cimitero, bianche perfino le scatole dei medicinali, ordinatamente ammucchiate negli scaffali anch’essi bianchi.
(Un po’ di viola, un po’ di viola, una violetta profumata per la nonna…).
Dai corridoi giungevano rumori di passi eseguiti da individui in uniformi verdi e scarpe bianche, sollevò lo sguardo e, attraverso un’impalpabile nebbiolina, incontrò quello di un’infermiera. Piangeva Caterina, l’infermiera le porgeva un caffè e lei piangeva senza riuscire a fermarsi, piangeva di dolore, di rabbia, piangeva su quel corpo già livido e inerte.
*** *** ***
In silenzio, la nonna se ne andò in silenzio, senza riprendere conoscenza, portando via con sé la parte più importante della vita di Caterina, quella dell’infanzia e dell’adolescenza, irrimediabilmente consegnate al ricordo.
Scappò via, per piangere da sola. Corse sul lungomare, arrivò alla solita spiaggetta dove sempre andava quando aveva un dispiacere, e si sedette su uno scoglio bianco.
Neapolis, Novapolis, Palepoli, questi gli antichi nomi di Napoli, la sua bella città, ancora più indietro nel tempo si era chiamata Partenope, da Partenu-Opsis, la figlia di Eumelo, il re della Tessaglia, morta subito dopo essere giunta sul litorale e qui seppellita, o forse dal nome della sirena che aveva ammaliato Ulisse, ma non al punto da riuscire a legarlo a sé, e che per questo s’era lasciata morire.
Fin da bambina aveva amato pensare che sotto le acque vivesse davvero, con le sue sorelle, l’infelice sirena, ed era a loro che andava ad raccontare le sue emozioni, che affidava i suoi dolori, che mostrava le sue lacrime, e questo era un momento in cui aveva bisogno di confidare le sue pene.
Insieme al vento che saliva dal mare le sembrava di sentire il loro canto consolatore, ma anche le pareva di udire l’eco della cara voce che le recitava i versi del poeta:
Core, core, che te lusinghe a ffa, tutto fenesce
Nasce ‘a matina ‘o sole e ‘a sera more,
more nu sciore e n’ato già ne cresce… (2)
E ancora le pareva di riudire le sue raccomandazioni:
-Allicuordate, nennè, ogni scarpa addiventa scarpone. Allicuordate, tutto se cagna e niente resta uguale… ’E ccose cagnano da nu juorno a n’autro… Ma nun e avé paura d’ ‘a morte, è sulo nu passaggio, nu cambiamento int’ ‘a quacche cosa che nun c’è dato sapé che d’ é… Si, però, tiene ‘a fede… (3)-
Caterina inspirò lungamente l’aria del primo mattino profumata dalla brezza marina, cominciò a giocherellare distrattamente con la rena: fu allora che scoprì una piccola conchiglia bianca, vuota, levigata dal mare, corrosa dal sale, con al centro una netta, precisa venatura viola… violetta… la Violetta.
Messaggio nella bottiglia, arcana corrispondenza: le parve un segno del destino!
Raccolse la conchiglia, la strinse forte nel pugno, la baciò lungamente tenendovi ben incollate le labbra come un bacio di bambina, infine sussurrò fra sé:
-Non addio, nonna, non addio, meravigliosa nonna!-
Caterina rivolse un ultimo sguardo al mare, al cielo e a quel punto lontanissimo nel quale i due elementi paiono congiungersi, poi asciugò le lacrime e tornò sui suoi passi per salutare un’ultima volta la nonna sul suo letto di morte; lei era già trasmigrata altrove… sì, ma dove?
Note
1) in seguito alla grave epidemia di colera che si ebbe a Napoli nel 1884, il sindaco Nicola Amore fece “sventrare” la città. Allora si costituì la società del Risanamento che edificò abitazioni più razionali dove prima sorgevano fatiscenti tuguri.
2) Cuore, cuore, è inutile che tu t’illuda, tutto finisce. Il sole nasce al mattino e a sera muore, muore un fiore e già ne cresce un altro, versi di Pasquale Cinquegrana.
3) ricorda, bambina, ogni scarpa diventa ciabatta. Ricorda, tutto cambia e niente resta eguale. Le cose cambiano da un giorno all’altro… Ma non devi temere la morte, è solo un passaggio, un cambiamento in qualcosa che non ci è dato sapere… Se, però, hai fede…
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