miglior film straniero. Sorrentino ringrazia Fellini e Maradona

osc - OSCAR, "LA GRANDE BELLEZZA"
Paolo Sorrentino

Trionfo dell’Italia a Hollywood, premiata dopo 15 anni da ‘La vita è bella’ di Benigni

“La grande bellezza” di Paolo Sorrentino ha vinto l’Oscar per il miglior film straniero. “Grazie alle mie fonti di ispirazione Federico Fellini, Martin Scorsese, Diego Armando Maradona, a Roma, a Napoli e alla mia più grande bellezza personale, Daniela, Anna e Carlo”. Queste le prime parole di Paolo Sorrentino sul palco del Dolby Theatre dopo aver ricevuto l’Oscar per “La Grande Bellezza”.
L’Oscar torna in Italia dopo 15 anni. L’ultimo ad aver conquistato la statuetta era stato Roberto Benigni con “La vita è bella” nel 1999. Ad annunciare la vittoria della “Grande Bellezza” sono stati Ewan McGregor e Viola Dacis. Sorrentino ha ricevuto il premio insieme a un entusiasta Toni Servillo e il produttore Nicola Giuliano.
Il neoministro dei Beni Culturali Dario Franceschini ha chiamato al telefono Sorrentino per esprimergli “gioia e ringraziamenti”. “Al risveglio – ha scritto su Twitter – sarà per l’Italia un’iniezione di fiducia in se stessa. Viva Sorrentino, viva il cinema italiano! Quando il nostro Paese crede nei suoi talenti e nella sua creatività, torna finalmente a vincere”.
Orgoglio italiano per Paolo Sorrentino e per il suo film ‘La Grande Bellezza’. Così di buon mattino il presidente del Consiglio Matteo Renzi in un tweet plaude all’ Oscar italiano: “in queste ore dobbiamo pensare ad altro e lo stiamo facendo. Ma il momento orgoglio italiano per Sorrentino e LaGrandeBellezza ci sta tutto”.
Il vero vincitore dell’86/ma edizione degli Oscar è però Gravity di Alfonso Cuaròn che si porta a casa ben 7 statuette su 10 nomination, tra cui anche regia e montaggio. Miglior film, però, è 12 anni schiavo. Miglior attore protagonista Mattew McConaughey, miglior attrice Cate Blanchett. (03 marzo 2014)

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La grande bellezza, recensione da Lo Straniero
di Dario Zonta

Come tutti quei registi di certa ambizione, anche Paolo Sorrentino è caduto nella tentazione di raccontare Roma. Mettendosi alle spalle la folta e ingombrante schiera di chi è riuscito e di chi ha fallito, il regista napoletano – volente o nolente – si è dovuto misurare con l’autore che meglio ha saputo declinare il paradigma del provinciale a Roma: Federico Fellini. La dolce vita e il mancato Moraldo in città, seguito ideale di I vitelloni, sono necessari punti di riferimento, come Roma, monumento alla decadenza della città eterna (ma ha anche guardato al Satyricon). Anche se a parole Sorrentino ha preso le distanze da qualsiasi riferimento felliniano (come conviene che sia), nei fatti La grande bellezza si pone come rivisitazione di quello stesso immaginario alla luce non solo della trasformazione antropologica della società italiana, ma anche del personale sentimento e delle intime idiosincrasie del regista campano. Sorrentino ha insidiato il suo affresco con una miriade di figure allegoriche, genericamente prese in prestito dalla volgarità del contemporaneo, ma alla fine staccate dalla sua contingenza.
Poeti muti post-esistenzialisti, nobili d’antiche casate scritturati a ore per serate di gala, bambine-artiste costrette a performance di body-painting, cardinali in odore di soglio pontificio ossessionati dalle ricette culinarie, attrici cocainomani fallite in procinto di scrivere un romanzo, erotomani imprenditori di giocattoli, scrittrici di partito con sicura carriera televisiva, direttori nani di quotidiani di tendenza, miliardarie rifatte, isterici collezionisti d’arte, dame d’alto borgo, maghi della finanza esperti di sartoria, santone oracolari e pauperiste con suite all’Hassler! Sono tutte figure bidimensionali su intercambiabili sfondi di cartapesta, senza storia, senza necessità, senza concretezza. Un bestiario umano che sfila nel circo, fustigato dall’eloquio forbito del protagonista Jep Gambardella che dispensa bastone e carota seguendo il ritmo del suo umore mondano.
Queste involontarie controfigure, doppi di originali già mostruosi, si accalcano intorno a Jep, scrittore acclamato di un unico romanzo giovanile, che trasferitosi a Roma dalla provincia, ne diventa il seduttore e il cantore privilegiato. Il compimento del sessantacinquesimo compleanno, festeggiato in un party barocco e decadente, dovrebbe essere la molla per una sua presunta crisi esistenziale, l’escamotage narrativo che avvia il film. Il viaggio che ne segue è un affondo nel cuore nero di Roma, portato dallo sguardo di questo comprimario assuefatto e corrotto. Pochi altri personaggi emergono al suo fianco, come l’amico che vuole diventare drammaturgo, un Moraldo laziale vestito un po’ goffamente da Carlo Verdone, e come l’avvenente spogliarellista cinquantenne, dolente e misteriosa, interpretata coraggiosamente da una Ferilli più che credibile.
Con poche eccezioni, le figure di corredo non sembrano avere una vita propria. Burattini comandati da Mangiafuoco, eterodiretti da una scrittura verticale e sempre giudicante, interpreti e figuranti sembrano non respirare, schiacciati dall’imperativo letterario che li ha pensati. A nessun personaggio è dato di evadere, e anche chi fugge dal circo eretto con grande magnificenza da Sorrentino, lo fa per morte sicura o per sparizione improvvisa (a esclusione di Verdone che si ritrae dal gioco al massacro tornando nella provincia da cui è venuto).
Perso in mille rivoli, La grande bellezza non racconta la crisi di un uomo e del suo mondo: la crisi di Jep è senza convinzione; come i trenini delle sue feste, non porta da nessuna parte, ed è arrivata su di lui come una condanna stanca che cade indiscriminatamente su tutto e tutti, e per questo intimamente assolutoria. A Jep piace troppo quel mondo per averne uno sguardo distaccato e critico, e non a caso, alla fine del film, prenderà la decisione di tornare a scrivere un romanzo, passando d’un balzo dagli abissi ai picchi del suo narcisismo. Il ritratto di questa società decadente e notturna che si nasconde dentro i palazzi romani, mai visibile agli occhi di un comune mortale, così staccata dalla realtà, diventa solamente pittoresco. Non avendo un corrispettivo nel mondo reale, è frutto di pura invenzione, tra l’altro scandita da una selezione arbitraria quanto significativa: di tutti i mondi rappresentati, manca all’appello quello politico e quello televisivo. Verrebbe da chiedersi: da dove vengono questi personaggi, chi hanno come modello, da cosa sono stati plasmati, chi li ha ridotti così se, volutamente, Sorrentino fa sparire dal contesto la politica e la televisione, ovvero gli artefici primari della dissoluzione del costume che racconta?
Queste omissioni trasformano il viaggio di Jep in un carnevale escheriano mai realmente tragico ma solo miseramente grottesco, una ronda impietosa ritratta con altrettanta mancanza di pietà. Il Fellini di La dolce vita non solo mostrava un mondo reale e concreto che si poteva già incontrare sulle strade del centro di Roma, ma aveva sempre nel suo orizzonte un “altrove”, elemento che manca nella visione di Sorrentino, come anche la pietas verso le creature notturne e corrotte che ritrae. La grande bellezza è invece freddissima, è un ologramma senza uno sfondo reale. E allora è facile perdersi in questo affascinante gioco, tanto visionario quanto letterario.
A favorire questo distanziamento c’è anche l’approccio volutamente anti-narrativo del film, già sperimentato in This Must Be the Place, ma qui ancora più evidente. Citando Céline e il suo Viaggio al termine della notte, Sorrentino sperimenta una narrazione errante, fatta di continue effrazioni, smottamenti, deliberati scivolamenti da un piano all’altro, da una situazione all’altra, lasciando tracce, abbozzi, improvvisi vagheggiamenti (molti devono essere stati i tagli in fase di montaggio). Alla storia preferisce l’elzeviro, l’affondo veloce, la critica sferzante e sempre erudita. Al dialogo preferisce un monologo straordinariamente punteggiato (e nel film si monologa anche quando si dialoga).
Sorrentino, come il suo Jep, si compiace troppo e crede troppo nella sua bravura che, per citare direttamente il suo personaggio, alla fine rischia di diventare solo un’abilità. Il regista campano non solo non ha risolto il contrasto tra scrittura e regia, ma più passa il tempo più questo contrasto diventa insanabile, soprattutto quando la scrittura tende al letterario. Troppo abile nello scrivere, troppo abile nel girare! Penna e macchina da presa sono in continua competizione, l’una deve superare l’altra. Al dialogo forbitissimo deve corrispondere un movimento di macchina altrettanto funambolico perché non soccomba sotto la pressione della scrittura.
Tutto questo produce una sensazione di artificiosità e gratuità. Il viaggio di This Must Be the Piace e l’affresco di La grande bellezza, così ampi e indeterminati, hanno allontanato Sorrentino dalle necessità di una narrazione coerente, stretta intorno a una storia, un evento, un’idea circoscritta che sembra reggere la prova del tempo, nasce da un personaggio concreto e da una ricerca storica determinata. La scrittura era al servizio di qualcosa, ne dipendeva e ne conseguiva. E poi c’è, seppur trasfigurata, l’aderenza a una Storia vera e non lo sfondo di una storia idealizzata e poco necessitata (come in This Must Be the Place, laddove il riferimento alla Shoah era il pretesto per una narrazione itinerante). Il linguaggio che Sorrentino predilige, se lasciato libero senza un appiglio più concreto, lo porta fatalmente a forme eccessive di astrazione e di estetismo, con una facilità di scrittura che diventa gesto, iperbole, zaffiro.

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Oscar a la “Grande Bellezza”. Tutti i premi dell’86/ma edizione

L’italia torna a vincere l’Oscar e lo fa con il suo candidato principe “Paolo Sorrentino”. Dopo 15 anni di attesa l’Oscar torna in Italia, l’ultimo ad averlo conquistato era stato Roberto Benigni con “La vita è bella” nel 1999.
La grande bellezza ha vinto l’Oscar per miglior film straniero. ”Grazie alle mie fonti di ispirazione Federico Fellini, Martin Scorsese, Diego Armando Maradona, a Roma, a Napoli e alla mia più grande bellezza personale, Daniela, Anna e Carlo”. Queste le prime parole di Paolo Sorrentino sul palco del Dolby Teathre dopo aver ricevuto l’Oscar per “La Grande Bellezza”.
Ad annunciare la vittoria della “Grande Bellezza” sono stati Ewan McGregor e Viola Dacis.
Sorrentino ha ricevuto il premio insieme a un entusiasta Toni Servillo e il produttore Nicola Giuliano.

Tutti i premi dell’86/ma edizione
FILM: “12 anni schiavo”
REGIA: Alfonso Cuara•n per “Gravity”
ATTORE PROTAGONISTA: Matthew McConaughey per “Dallas Buyers Club”
ATTRICE PROTAGONISTA: Cate Blanchett per “Blue Jasmine”
ATTORE NON PROTAGONISTA: Jared Leto in “Dallas Buyers Club”
ATTRICE NON PROTAGONISTA: Lupita Nyong’o in “12 anni schiavo”
FILM D’ANIMAZIONE: “Frozen”
FILM STRANIERO: “La Grande Bellezza”
SCENEGGIATURA ORIGINALE: Spike Jonze per “Lei”
SCENEGGIATURA NON ORIGINALE: John Ridley per “12 anni schiavo”
CORTO D’ANIMAZIONE: “Mr. Hublot” – FOTOGRAFIA: Emmanuel Lubezki per “Gravity”
SCENOGRAFIA: Catherine Martin e Beverley Dunn per “Il Grande Gatsby”
COLONNA SONORA ORIGINALE: Steven Price per “Gravity”
SONORO: Glenn Freemantle per “Gravity”
MONTAGGIO SONORO: Skip Lievsay, Niv Adiri, Christopher Benstead e Chris Munro per “Gravity”
TRUCCO: Adruitha Lee e Robin Mathews per “Dallas Buyers Club”
COSTUMI: Catherine Martin per “Il Grande Gatsby”
CORTO DOCUMENTARIO: “The Lady in Number 6: Music Saved My Life”
CORTOMETRAGGIO: “Helium” – DOCUMENTARIO: “20 Feet from Stardom”
EFFETTI VISIVI: Tim Webber, Chris Lawrence, David Shirk e Neil Corbould per “Gravity”
MONTAGGIO: Alfonso Cuar•n e Mark Sanger per “Gravity”
CANZONE ORIGINALE: “Let it go” di Kristen Anderson-Lopez e Robert Lopez per “Fro

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Tutti i film italiani vincitori dell’Oscar: http://www.cineblog.it

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