Italo Calvimo - Palomar

 

Recensione filosofica

Stavolta scriverò di un vecchio romanzo di Italo Calvino, Palomar, del 1983. Perché può capitare che, spolverando l’ultimo ripiano della libreria di casa, un libro richiami la nostra attenzione su di sé. Allora lo prendiamo tra le mani, soffiamo appena sulla copertina, e gli diciamo “sì”.

Il signor Palomar ha una moglie e una figlia bambina con le quali vive a Roma in una casa col terrazzo e delle piante. È un grande osservatore, appassionato della natura e di astronomia: ecco, questo è l’essenziale del libro. Cosa accade? Praticamente nulla. Il signor Palomar va in spiaggia, sta in giardino, guarda il cielo, osserva gechi e storni dal terrazzo, fa la spesa, va allo zoo, visita il Messico, il Giappone ed altri Paesi orientali, s’intrattiene con i suoi simili manifestando difficoltà e disagio, soprattutto pensa. Tutte le sue azioni, anche le più banali, sono accompagnate da un pensiero speculativo profondo e ininterrotto, una sorta di melodia diegetica che fa di quest’opera un romanzo filosofico d’indubbio spessore, nonostante la snellezza del volume.

La struttura è triadica: presenta tre macrosezioni, ciascuna suddivisa in tre sezioni, ognuna delle quali ulteriormente composta di tre parti. La numerazione dei titoli dell’indice evidenzia tre aree tematiche che ricorrono secondo un ordine ben preciso: i numeri 1 riguardano di solito un’esperienza visiva tradotta in una descrizione. Val qui la pena di riflettere su come oggi la descrizione costituisca un esercizio letterario tristemente caduto in disuso: l’uso/abuso di immagini rende infatti superfluo l’impiego delle parole, così inviamo una foto invece di descrivere al telefono o per lettera la bellezza dello spettacolo che abbiamo davanti agli occhi. I numeri 2 concernono elementi antropologici e culturali che si articolano in un racconto. I numeri 3 attengono al cosmo, al tempo, all’infinito, a mirabili acrobazie speculative che diventano meditazione. Ci sovvengono Dante e Hegel, e la struttura rigorosamente numerica – e triadica– dei loro sistemi. In Calvino scopriamo il bisogno e il gusto di dare ordine a una realtà sfuggente e riottosa, che solo un approccio metodico può provare a imbrigliare per osservarla da vicino e comprenderla, finalmente. Ma, Calvino lo sa, si tratta solo di una bellissima illusione letteraria.

Dalla spiaggia il signor Palomar osserva la superficie del mare. Dal moto ondoso lui vuole estrarre la singola onda e osservare quella sola, perché evidentemente sa, leibnizianamente, che impressioni troppo piccole, numerose e ravvicinate danno soltanto una percezione oscura dell’oggetto, precisamente quella che abbiamo della superficie mobile del mare. In realtà, ogni onda è diversa da tutte le altre, ma tutte hanno qualcosa in comune: l’ousia (la sostanza) dell’onda. Il Lettura di un’onda Palomar vuole cogliere le caratteristiche comuni a tutte le onde, come la gobba o il modo di «rimboccarsi di bianco». Appena si renderà conto «che le immagini si ripetono saprà d’aver visto tutto quel che voleva vedere e potrà smettere». Tuttavia il suo proposito è ben più grandioso: applicare lo stesso metodo d’indagine, e la conoscenza che ne è derivata, all’intero universo.

La spada del sole che, al tramonto, s’allunga sulla superficie dell’acqua fino a raggiungere il signor Palomar che nuota, è, hegelianamente, un riflesso in sé o è un riflesso per sé? L’aguzzo triangolo dorato che sembra puntare proprio lui, «indicandolo come la lancetta d’un orologio che ha per perno il sole», vuole esprimere una predilezione universale oppure rivela semplicemente l’illusione della percezione di qualunque essere pensante che a quell’ora e nello stesso luogo si conceda il piacere di qualche bracciata? Naturalmente Palomar sfugge alla trappola dell’anastrofhé, cioè all’idea di essere al centro di un interesse collettivo e cosmico, e sceglie la seconda ipotesi. Tuttavia resta in piedi la prima domanda: quella spada di luce riflessa esiste davvero? Cioè, è una spada in sé? O se non ci fosse un osservatore pensante quella spada semplicemente non esisterebbe? È quella quindi forse solo una spada per sé? È lo stesso noto discorso del rumore di un albero che si schianta in una foresta deserta: in mancanza di un sistema uditivo capace di cogliere le vibrazioni dell’aria prodotte da quella caduta e di convertirle in suono, quello schianto non produce alcun rumore. Perché il suono non è in sé, ma per sé… E così nulla di quello che a noi sembra di poter affermare con certezza assoluta è vero: «il sole non tramonta, il mare non ha quel colore, le forme sono quelle che la luce proietta nella retina»… Dunque la natura esiste davvero? Il fenomeno –ciò che appare– è reale? Ci pervade solo un forte senso di filosofica contingenza, cioè la sensazione che siamo qui ma avremmo potuto non esserci, «in un mondo che potrebbe non esserci ma c’è».

Deliziose anche le riflessioni ne Il prato infinito, tra le quali affiorano altre reminiscenze filosofiche. Qui il primo argomento contro la molteplicità di Zenone di Elea diventa botanico: «tra pianticella e pianticella c’è sempre un germoglio di fogliolina che affiora appena dalla terra». Se tra due cose ce ne sarà sempre una terza, il loro numero sarà ad un tempo finito e infinito. Dunque la molteplicità è un’illusione. E anche i concetti universali, lo sono. Quando dico “prato” vedo davvero un prato, oppure vedo «un’erba più un’erba più un’erba»? Il mare e le singole onde, il prato e le singole erbe: attraverso il linguaggio ci sforziamo di dare ordine e forma all’universo, che è più Chaos che Kosmos.

La contemplazione delle stelle, pur richiamando immediatamente il sublime matematico kantiano, cioè «ciò che è assolutamente grande al di là di ogni comparazione» (Critica della ragion pura), ci proietta altresì in una dimensione squisitamente linguistica, rievocandoci piuttosto il Cratilo di Platone: per il signor Palomar, infatti, il linguaggio sidereo non è pura convenzione ma è legato alla natura degli astri. La Chioma di Berenice ha un nome imposto dal carattere stesso della costellazione: le tre stelle che formano una piccola “V” nella coda del carro dell’Orsa Maggiore richiamano la splendida treccia di capelli che la consorte di Tolomeo III Evèrgete offrì agli dei in cambio dell’incolumità del suo amato durante una campagna militare. Secondo Palomar ciascuna stella risponde al nome con cui è stata chiamata.

Dal terrazzo il signor Palomar vede i tetti di Roma. L’antica città è corrosa in basso da orde sotterranee di topi e in alto dai piccioni che, come il proletariato straccione di Marx, offendono con il loro aspetto dimesso e preoccupano perché sono troppi. Quei «terrazzi proletari con corde per panni stesi e pomodori piantati in catini di zinco» tolgono il fiato per la loro bellezza, nitidezza e verità.

Se ogni stella risponde quando la si chiama, ne Il museo dei formaggi ogni formaggio aspetta il suo cliente, perché esiste un formaggio giusto per ciascuno di noi. Calvino ci parla dell’«esperienza dei sapori, fatta di memoria e d’immaginazione insieme». Ne Il marmo e il sangue il sapore è quello della carne, che sa pure del «rimorso per l’uccisione di altre vite al fine di nutrire la propria».

Palomar allo zoo ci rivela di amare le giraffe ma non i pinguini. Il povero gorilla che stringe al petto un copertone di pneumatico d’auto è una perfetta allegoria della nostra angoscia al cospetto del nulla. Il meccanismo di proiezione investe anche i coccodrilli, «tozzi, ruvidi, orrendi», ma dotati di una «smisurata pazienza». «Cosa aspettano, o cosa hanno smesso d’aspettare?», si chiede il signor Palomar. Forse la loro non è pazienza, ma ottusa disperazione.

Ne I viaggi di Palomar, egli s’imbatte continuamente in cose – elementi pittorici, scultorei, ecc. – che significano «qualcosa che significa qualcosa cha a sua volta significa qualcosa»: è un continuo rimando di significati. L’interpretazione, la lettura metaforica e allegorica del mondo sono sovrani esercizi della mente. Non si può vivere senza interpretare, come non si può non pensare.

La pantofola spaiata ci offre una sottile riflessione sulla complementarità che, raramente e inavvertitamente, si realizza tra gli enti. Se l’errore del mercante che ha venduto al signor Palomar una pantofola di una misura diversa dall’altra andasse a compensare un vecchio errore che si trascinava da secoli? Se si fosse in tal modo e senza intenzione ristabilito un ordine violato?

Quando a nessuno è consentito parlare e ci si sottomette al silenzio preteso dal potere, certo si sbaglia. Ma quando tutti parlano (vedi l’ininterrotto sproloquio social), più che cercare di dire la cosa giusta, che comunque verrebbe diluita e dispersa nella verbosa tracimazione dell’esserci, conviene praticare «un’arte del tacere più difficile ancora dell’arte del dire» (Del mordersi la lingua).

Ne Il modello dei modelli Palomar s’interroga sulla possibilità di piegare la realtà «informe e dissennata» alla razionalità di un modello. Poi però s’accorge che i modelli sono strumenti di potere. E, considerata la sua diffidenza verso poteri e contropoteri, decide di rinunciare a qualsiasi modello e di verificare le sue convinzioni «caso per caso».

Come nel mito di Diana e Atteone, in cui l’uomo nell’ansia di conoscere la natura si mette a inseguirla senza comprendere di essere egli stesso natura, ne Il mondo guarda il mondo si realizza uno scambievole gioco di sguardi con la mediazione dell’io. E, ancora una volta, si realizza un rovesciamento del rapporto tra oggetto e soggetto: dal continuum spazio-temporale si stacca un segmento di realtà che richiama chi guarda: l’oggetto agisce sul soggetto.

Il signor Palomar patisce un insuperabile disagio sociale: è spesso nervoso, confuso, ansioso. Soffre d’insonnia. Invidia le persone che sanno sempre cosa dire e quando dirlo, che vivono in armonia con il mondo. Quindi si propone di migliorare i suoi rapporti con l’universo migliorando intanto la conoscenza di se stesso. Le meditazioni di Palomar, che conducono a un imprevedibile finale, ci regalano perle preziose. Tra tutte una: nessuno può toglierci ciò che abbiamo avuto. E allora noi spingiamo oltre la riflessione: neppure il dio più vendicativo, nella sua onnipotenza, potrebbe annullare quello che è stato. I palpiti, i sorrisi, gli abbracci, le esaltanti attese, le risate, l’amore. Nessun dio ha alcun potere sul passato, il tempo è irreversibile.

L’essenza della realtà non si può cogliere davvero. A noi resta solo lo streben, lo sforzo nobilitante, che tuttavia è destinato al fallimento. Il motivo ce lo spiega bene il signor Palomar: «Solo dopo aver conosciuto la superficie delle cose ci si può spingere a cercare quel che c’è sotto. Ma la superficie delle cose è inesauribile».

Cristiana Bullita

 

 

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