Il divario retributivo fra lavoratore e lavoratrice, conosciuto come gender pay gap (o gender wage gap), conferma, dal punto di vista economico, la situazione di inferiorità della donna nelle aziende italiane.
Non basta l’uguaglianza formale e sostanziale di tutti i cittadini e la parità sessuale di cui all’art. 3[1] della Costituzione, tantomeno il diritto della lavoratrice di percepire la medesima retribuzione, a parità di lavoro, del lavoratore, di cui all’art. 37; in Italia si registra una differenza di stipendio attorno al 12,7 per cento[2], un dato che auspicalmente si dovrebbe azzerare entro il 2022[3].
Al giorno d’oggi, configurandosi come un vero e proprio diritto[4] e sposando la tesi della giurista Maria Luisa Zavattaro, è ragionevole ritenere che lavorare costituisca pure «un dovere che indispensabilmente s’impone a tutti, uomini e donne, quale mezzo per vivere in libertà e dignità, per provvedere a sé e agli altri, per cooperare al bene comune»[5]; pertanto la conferma, quantomeno a livello fattuale, dello stato di inferiorità della donna rispetto all’uomo nello svolgimento delle medesime mansioni non è altro che l’ennesima discriminazione basata sul sesso che la Storia continua a portarsi con sé.
Se in passato, specialmente a cavallo fra Ottocento e Novecento, la donna accettava tale situazione pur di poter entrare nel mondo del lavoro e rivendicare uno status quanto più compatibile con quello riconosciuto all’uomo, liberandosi- tanto per usare un’espressione della celebre femminista Anna Kuliscioff, autrice del pamphlet del 1890 Il monopolio dell’uomo -del «parassitismo»[6] che la società le aveva affibbiato fino a quel momento, oggi dovrebbe essere inconcepibile, soprattutto in quanto cozza con il dettame costituzionale e con i numerosi interventi legislativi e giurisprudenziali degli ultimi anni in materia di pari opportunità.
La Costituzione è molto chiara a riguardo e non troviamo infatti in alcun articolo un riferimento al gender pay gap: il combinato disposto di cui agli artt. 3 e 27, precedentemente menzionati, enuncia proprio la parità sessuale, dunque la parità fra lavoratore e lavoratrice all’interno dell’azienda. Non a caso, recita il primo comma dell’art. 37: «La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore».
Inoltre, quel 12,7 per cento citato pocanzi non dovrebbe trovare ragione di esistere e la sua formulazione avrebbe dovuto essere soppressa in primis dalla corretta applicazione dell’art. 46 del D.lgs. 198/2006 (meglio conosciuto come Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, a norma dell’articolo 6 della legge 28 novembre 2005, n. 246) , che prevede la redazione biennale da parte delle aziende pubbliche o private con all’interno più di 100 dipendenti di un rapporto sulla situazione del personale maschile e femminile anche in relazione allo stato «della retribuzione effettivamente corrisposta»[7].
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