di Donatella Proietti Cerquoni
E’ molto difficile confrontarsi, non solo in fb. Si tende a non far entrare il pensiero altrui nel proprio forse perché si teme che le nostre convinzioni ne escano indebolite, invece che accresciute di elementi ai quali non avevamo pensato. Io, per esempio, non sono disposta a far entrare in me l’idea che nelle relazioni con i violenti sia in gioco l’amore piuttosto che il potere per cui considero molto pericoloso il discorso di qualche influencer femminista che, nel tentativo di mostrare profondità, finisce per sostenere scelte che considero sbagliatissime sotto il profilo politico. Non sono disposta a tornare sul punto perché si tratta di qualcosa che è stato guadagnato e sono convinta che centrare nuovamente tutto sulla relazione come fosse un assoluto, non solo rende più deboli le vittime di violenza, ma rende fragili gli interventi a loro sostegno e, per di più, rafforza, ancora una volta, gli uomini. Non farlo entrare in me vuol dire che non impiego un minuto su una riflessione già svolta nel femminismo e che ha dato vita a metodologie politico-professionali che non debbono essere riviste ma applicate ovunque. E’ una riflessione che non ha bisogno di essere aggiornata, non nei termini in cui viene posta oramai con insistenza preoccupante da uomini e donne che sembrano interessati a contaminarsi con un pensiero che vorrebbe scardinare quello autenticamente femminista. Sono stata accusata, per aver contestato questa visione, di voler “dare patenti”, lo hanno fatto uomini, ovviamente, e loro alleate. Da che parte stanno costoro?
Affermare che l’amore c’entri, nella violenza, è precisamente ciò di cui si deve liberare chi vuole uscire dalla violenza. Centra, l’amore, certamente, ma da parte di chi? E a cosa servirebbe rimetterlo in gioco? Se queste femministe, arrivate ad una certa età, guardano l’accadere con gli occhi di una qualche saggezza, devono pensare che la violenza è sempre la stessa anche se peggiore di un tempo, quando la mentalità dell’impunità non era così diffusa, quando ancora si sperava nel Diritto e nella Giustizia, quando i nostri temi non erano stati usurpati dalle ideologie attuali e rovesciati contro di noi attraverso un linguaggio che definire biforcuto è un eufemismo.
Sul piano dell’intervento, tutto questo ci fornisce un quadro molto preoccupante: femministe che usano tempo, competenze, pensiero, motivazione per lavorare all’ascolto dei violenti, i quali utilizzano tutto questo per scampare alle pene.
Il tutto dentro un quadro teorico che fa acqua da tutte parti, nel quale si sostiene che gli uomini siano lontani dalle proprie emozioni e che quella sia una causa del passaggio all’atto violento. E’ esattamente il contrario: gli uomini seguono senza freni le loro emozioni, autorizzati dentro una mentalità che teorizza l’incontenibilità dei loro impulsi.
Qualcuna sostiene che i CAM verranno finanziati con altre risorse rispetto a quelle destinate al contrasto alla violenza maschile, Non è vero: sono all’interno del Piano nazionale. Domando: perché si configura un diritto dei violenti a beneficiare di finanziamenti pubblici e non si usano quelle risorse per potenziare il lavoro dei centri che si occupano delle donne? Perché donne si vanno ad occupare di uomini? Perché uomini vengono coinvolti a dare pareri sul contrasto alla violenza dopo che abbiamo appurato che sono ancora lontanissimi dalla capacità di gestirla?? Gli uomini si occupino degli uomini, trovino il modo di fermare la loro violenza e non vengano, come mentecatti, a usare le nostre già scarse risorse. Che razza di femminismo è questo?
Ho sentito il bisogno di esprimere con decisione un punto di vista che condivido con donne e giovani competenti in tema di violenza maschile per cui tengo a dire che prospettive e considerazioni che faccio mie, provengono anche dall’intelligenza e dall’esperienza di altre.
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