Su questo blog ci siamo occupati spesso della paura come strumento di governo. In Come si fabbrica un terrorista abbiamo documentato come l’intelligence interna americana organizzi e finanzi finti attacchi terroristici commissionandoli a disadattati che si vanterà in seguito di avere arrestato. In Dovete parlare di guerra civile abbiamo abbozzato una grammatica della paura decostruendo un’intervista di Enrico Letta, mentre in #facciamocome Israele si è osservato come l’esempio dello stato di Israele -il più colpito dal terrorismo tra le nazioni economicamente avanzate- sia paradossalmente indicato come un antidoto al terrorismo alludendo direttamente alla necessità di vivere nella paura dell’altro e di riconoscere poteri sempre più ampi alla sorveglianza di Stato.
Sullo stesso tema ci siamo recentemente imbattuti in una copertina di fine luglio del settimanale Sette. Qui campeggiano il mezzobusto del DJ parigino David Guetta in tuta mimetica e un titolo a caratteri cubitali gialli: “Ma io non ho paura”. Più sotto: “Il terrore è parte della nostra vita, è come se non fossimo liberi di essere felici ecc.”.
C’è evidentemente un problema: se il terrore è un “sentimento di forte sgomento, di intensa paura” (Garzanti), come può il suo essere “parte della nostra vita” conciliarsi con il fatto di non avere paura? Non può, appunto.
La contraddizione ricorre nella retorica post-terrorismo, che mentre carica con una mano il piatto della paura paventando rischi improbabili e scenari da guerra civile, con l’altra invita il gregge a non disperdersi e, anzi, a ostentare la propria misera routine come un eroico presidio: di resistenza e resilienza, di sberleffo al nemico. Sicché dovremmo immaginarci la rabbia dei mujaheddin – e non già una più verosimile noia – qualora si sintonizzassero sui tunzi tunzi di Guetta.
Perché si intende: la paura e il nemico servono ad affermare la disciplina, non il caos. Alla pars destruens degli spauracchi in prima pagina deve seguire la pars costruens dei richiami alla responsabilità e all’ordine, cioè all’obbedienza. Il trauma ha da essere fertile come un terreno sconvolto dal vomere, pronto ad accogliere i semi di chi coltiva il consenso. Alla paura subentra così il suo falso antidoto, che la moltiplica nella promessa di risolverla: la paura di avere paura.
Il timore della paura scaturisce dall’esigenza di non mostrarsi deboli in un ambiente competitivo. È un bisogno ancestrale e indifferente ai caratteri e ai valori degli individui, che affonda il suo imperativo nell’istinto di sopravvivere agli altri: i predatori e i nemici ieri, gli avvocati, i superiori, i colleghi, i cosiddetti amici oggi. Nel regno animale di cui siamo cittadini una debolezza percepita è più letale di una debolezza reale. Perciò nel linguaggio corrente l’epiteto di “debole” ferisce più di ogni insulto: perché insinua menomazione, parassitismo, inadeguatezza alla vita.
Nel modello socio-economico contemporaneo la competizione non è solo nei fatti, ma è celebrata anche nei principi. Di più: è fabbricata e imposta anche laddove non dovrebbe esistere. La scarsità monetaria delle banche centrali indipendenti costringe le economie nazionali a strapparsi l’un l’altra le risorse per procrastinare il collasso, mentre la scarsità occupazionale crea guerre e invidie tra giovani e vecchi, alloctoni e autoctoni, dipendenti pubblici e privati, imprenditori e sottoposti, cittadini e politici, tutti a invocare l’impoverimento altrui nell’illusione di salvarsi pasteggiando sulle carcasse del prossimo.
Di pari passo crescono le paure: del futuro, dei debiti, della vecchiaia e della malattia, dell’impossibilità di sostenere i propri cari, di perdere la casa e il lavoro ecc. Paure giustificate e sacrosante, che svolgono la funzione per cui la paura esiste: quella di segnalare un pericolo, di figurarci in anticipo un danno sì da poterlo analizzare ed evitare per tempo.
Sicché ad esempio, in assenza di contromisure dialettiche, il timore degli attacchi terroristici spingerebbe le popolazioni colpite a indagarne razionalmente le cause. Come minimo, suggerirebbe loro di non insistere con le politiche che da vent’anni falcidiano le libertà degli occidentali e le vite dei mediorientali, ma non quelle di chi piazza le bombe.
E la paura per la propria sicurezza economica produrrebbe una critica dei capisaldi ideologici e delle istituzioni che la minacciano. Chi rischia la disoccupazione e l’indigenza chiederebbe più tutele, chi dispera di ricevere una pensione si interrogherebbe sul senso di una finanza pubblica asservita ai già ricchi, chi teme il fallimento o il licenziamento reclamerebbe protezione per le imprese e denuncerebbe i danni di una politica monetaria e fiscale che consegna il mercato alle produzioni straniere. E qualcuno – non voglia il Cielo – potrebbe finanche decidere di non rispettare le leggi che gli portano danno.
Ma nulla di ciò accade. Perché, per fortuna di chi impone queste politiche, la contromisura dialettica esiste ed è appunto la paura della paura, che da residuo antropologico diventa il fulcro di unaretorica per convincere le vittime a desiderare il proprio svantaggio. Vediamo come…
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