di Claudio Angelini
Citta del Sole Edizioni
Collana: Salotto letterario romano
120 pagg. dicembre 2007
DALL’INTRODUZIONE DELL’AUTORE
[…] Fino all’epoca di Plauto (III secolo a.C.) il latino, lingua ancora non ben formata e in parte governata dalla fantasia, avrebbe potuto sviluppare modelli di comunicazione simili a quelli greci. Ma la sua natura più intima era quella d’una lingua sintetica, non analitica. D’una lingua, come dimostrarono sempre di più le circostanze della storia, adatta al comando, oggettiva, una lingua a servizio d’uno stato e d’un popolo con un compito da svolgere nel contesto delle nazioni. Il latino non era espressione nata per cedere all’estro, alla soggettività; essa doveva significare cose, concetti chiari, comprensibili per tutti, nel contesto d’una pluralità di culture ed etnie che proprio nella forza e grazie alla forza di quell’espressione si rinnovavano, si modificavano dall’interno, e si unificavano. E’ quanto si evince dall’efficace affermazione che nel Quattrocento fece il grande umanista Lorenzo Valla, nell’opera ”Elegantiarum linguae latinae libri VI” : “… exteri nobiscum in loquendo consentiunt; Graeci inter se consentire non possunt.” (… noi parlando (latino) ci capiamo bene con gli stranieri; i Greci non si capiscono nemmeno fra di loro.) […] […] Da tutto ciò è disceso anche il fatto che, se nell’antichità la lingua della filosofia e della scienza era stata il greco, dall’epoca medievale in poi, quando si trattò di usare una lingua con caratteri semantici chiari e validi per tutte le nazioni d’Europa unite nel segno della cultura classica, non si potè usare che il latino. Era il trionfo della razionalità, dell’oggettività e della massima espressività, perché quella che era divenuta lingua imperiale serbava un potenziale dinamico e creativo vastissimo, volto ancora alla conquista e alla trasformazione del mondo.
Il Leopardi inconsciamente amava più il greco perché era un “impolitico”, un individualista; il latino fu per eccellenza una lingua “politica”, universale, riflesso d’una concezione sociale per cui ogni cittadino libero, conformemente ai suoi mezzi, doveva contribuire alle necessità dello stato. Forse la stessa gravità, e sentenziosa concisione della lingua di Roma non era prediletta, dal Leopardi, che pure amò e tradusse i suoi poeti. Egli più che altro sentì il suo animo vicino a quello del massimo poeta della latinità, Virgilio, per il suo amore per la natura, per la semplicità, e profondità dei suoi sentimenti. E’ indubbio che il più grande poeta del popolo più guerriero e militaresco che sia mai esistito, è anche, nell’animo, il più antimilitarista, il più mite e contrario alla guerra fra tutti i poeti, colui che più compiange il dolore umano e la sofferenza del debole, e sembra preannunciare l’imminente nascita di Cristo. Non la guerra infatti, ma la pace, dal poeta, è riguardata come segno della benevolenza del fato e della “provvidenza”, la forza divina che secondo il cantore mantovano regola le cose del mondo. E tutto questo, certo, s’avvicina molto alla sostanza della “democrazia”, intesa come giustizia fra i popoli. Virgilio non avrà la grandezza epica d’Omero, ma una sensibilità più delicata, più comprensiva dei mali, dei patimenti, delle esigenze dell’uomo, più evoluta, e, in una parola, più attuale e valida per ogni tempo, certamente sì.
Claudio Angelini
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Caio Valerio Catullo (I sec. a.C.)
ADDIO AL FRATELLO
Per genti innumerevoli, per molti mari portato,
vengo, o fratello caro, a queste esequie tristi,
vengo perché possa offrirti l’ultimo dono di morte,
e per parlare, invano, al tuo cenere muto,
poiché il destino amaro volle strapparti a me,
o misero fratello tolto a me crudelmente.
Ora frattanto quei doni serbati alle tristi esequie,
secondo l’uso antico tramandato dai padri,
prendili, ché grondanti sono di pianto fraterno,
ed in perpetuo a te addio, fratello, addio.
“ODIO E AMO”
Odio e amo; in che modo ciò avvenga forse domandi;
io non lo so, ma sento che è così, e impazzisco.
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Albio Tibullo (55/48 a.C. – 19 o 18 a.C.)
ELEGIE, I, 1
Che pensi un altro ad arricchirsi, e ammucchi
oro biondo per sé, possegga molti
iugeri di terreno coltivato,
e però viva coi continuo assillo
del nemico vicino, e a lui lo squillo
delle guerresche trombe metta in fuga
i sonni. A me la mia modestia doni
una vita tranquilla, purché spienda
sempre la fiamma nel mio focolare.
Possa piantare, contadino io stesso,
le viti tenere nel tempo giusto,
e con esperta mano anche le grandi
frutta, né mi deluda la speranza,
ma mi conceda sempre tante biade
e pingue mosto nei ricolmi tini.
Io infatti onoro parimenti o un tronco
abbandonato in mezzo ai campi, o un sasso
antico in un crocicchio, purché adorni
di serti floreali; ed ogni frutto
che maturi con l’anno nuovo io l’offro
come primizia al dio della campagna. […]
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