di Diego Galli
Barack Obama community organizer a Chicago
Barack Obama accogliendo Papa Francesco alla Casa bianca ha usato queste parole:
“Dai tempi in cui lavoravo nei quartieri poveri di Chicago, fino ai miei viaggi da Presidente, ho visto con i miei occhi il modo in cui, ogni giorno, comunità, preti, suore, laici cattolici sfamano gli affamati, curano i malati, danno riparo ai senza tetto, educano i nostri bambini e fortificano la fede che sostiene così tante persone”.
Il riferimento di Obama al suo impegno nei quartieri poveri di Chicago è doppiamente significativo. Perché chiama in causa la lotta alla povertà e alla diseguaglianza economica che unisce il Presidente americano all’attuale Pontefice. E perché fa riferimento al periodo della sua vita in cui Obama si è dedicato al community organizing, una tradizione di impegno sociale la cui origine è strettamente legata all’evoluzione della Chiesa cattolica negli Stati Uniti”
(continua a leggere) Quella lotta alla disuguaglianza (di potere) che unisce Papa e Obama…
Il nuovo papa è un gesuita francescano
Francesco è un papa educato a pensare come un gesuita che ha scelto di vivere come un francescano. Un prete che ha fatto della povertà dei gesti, della vita, e dello spirito la sua regola.
Jorge Mario Bergoglio, il nuovo vescovo di Roma, è il primo gesuita a diventare pontefice.
Come è noto, i gesuiti fanno voto d’obbedienza al papa, il che –almeno fino ad oggi– li escludeva dal seggio di San Pietro.
Gesuita, cioè appartenente ad un ordine nato al tempo della Riforma e della prima globalizzazione, quella che avrebbe portato i portoghesi e gli spagnoli, soldati e preti, a colonizzare America e Asia. Un ordine di missionari, intellettuali, straordinari organizzatori, perfettamente a loro agio nel mondo della modernità. Un ordine che ha prodotto la migliore teologia cattolica dell’ultimo secolo – Henri de Lubac, Karl Rahner, Bernard Lonergan e Hans Urs von Balthasar e probabilmente il più geniale di tutti, Pierre Teilhard de Chardin.
Un ordine che ha pagato caro le idee dei suoi intellettuali (ridotti al silenzio), l’attività sociale dei suoi preti (martiri in ogni continente) e l’influenza sulle classi dirigenti europee e asiatiche: l’ordine è stato cacciato, perseguitato, soppresso, ancora trent’anni fa messo sotto osservazione.
Ovviamente, non è che tutto questo enorme passato si rifletta nel nuovo papa, ma certamente egli è espressione di questa tradizione affascinante e importante della Chiesa Cattolica. L’appartenenza alla Compagnia di Gesù ha plasmato sia la sua vita di prete, indirizzandola nella direzione dell’insegnamento e della missione, sia il suo impegno di pastore, fermo sui principi e cauto nella gestione quotidiana. Un uomo inculturato nella sua terra, identificatosi con la sua gente.
La sua gente è soprattutto composta dai poveri. Da qui il nome Francesco, un inevitabile richiamo al santo d’Assisi ma anche alla povertà del continente sud americano. L’America Latina è il continente in cui la povertà non è semplicemente un problema sociale ma una sfida alla visione spirituale della chiesa e una fonte d’ispirazione teologica.
Il nuovo papa non vive la sfida alla povertà come un’ideologia, ma come una missione. La chiesa è, secondo Francesco I, impegnata in America Meridionale in un’azione missionaria di evangelizzazione, non di liberazione sociale. Cambiare i cuori per cambiare le strutture sociali. Vedremo presto se i poveri resteranno la bussola del nuovo papa e lo diventeranno della chiesa intera.
La riforma della Chiesa, da tanti auspicata, potrebbe avvenire semplicemente girando lo sguardo dall’altra parte, relegando il Vaticano all’irrilevanza, e aprendo una nuova stagione di missioni. Non del papa soltanto, come nel caso di Giovanni Paolo II, ma della Chiesa tutta.
Il nuovo papa lo ha detto, in passato: “Tutta l’attività ordinaria della Chiesa si è impostata in vista della missione. Questo implica una tensione molto forte tra centro e periferia, tra la parrocchia e il quartiere. Si deve uscire da se stessi, andare verso la periferia. Si deve evitare la malattia spirituale della Chiesa autoreferenziale: quando lo diventa, la Chiesa si ammala.” Una chiesa che sposta il suo centro di gravità in periferia e lascia la Curia a Roma alla sua autoreferenzialità.
La povertà di Francesco è riflessa nel sorriso, semplice, e nel suo semplice stare di fronte alla folla, accumulando gravità con il silenzio e comunicando umiltà attraverso la gestualità del corpo. Porta la croce di metallo e si affaccia dal balcone della Basilica di San Pietro senza l’ermellino. Il suo stile umile non riflette semplicemente la povertà delle masse dei fedeli, ma anche (e soprattutto) la povertà di (in) spirito, locuzione teologica che sta per consapevolezza della propria povertà, dei propri limiti, della propria fragilità e della propria non auto sussistenza.
Qualsiasi soluzione umana, anche la più disinteressata, commette l’errore di dimenticarsi di Dio, della necessità di abbandonarsi a Dio. Da qui l’importanza della preghiera. Nella sua prima apparizione pubblica, Francesco I ha pregato e fatto pregare. Non una preghiera di devozione, ma una preghiera carismatica, di richiesta di Presenza. Poi ha chiesto ai fedeli di chiedere al Padre la benedizione per il papa, prima che il papa, padre in terra, benedicesse i fedeli.
È Dio che cambia il mondo (e riforma la Chiesa).
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