di Franco Santamaria
Introduzione di Antonio Spagnuolo
Prefazione di Alfredo Rienzi
Kairòs Edizioni, Napoli
ISBN 978-88-95233-34-5, pp. 94
per informazioni: [email protected]
Poesia materica fatta di cose, come di argilla, che si formano nelle mani del poeta che ne fa oggetto di pensiero e riflessione.
Sono fili tenaci questi versi, che si annodano formando magazzino per il futuro. Radici aeree che si collegano al lettore, trascinandolo nella materia viva di una conversazione lunga e appassionata. A volte dolorosa, a volte esplosiva.
Improvvise rivelazioni, scosse del dire che scavano nella doppiezza dell’uomo, lungo i confini incerti dell’essere.
Una poesia spesso disperata e invocativa. Sempre piena e armata di un dire appuntito che lascia un segno indelebile nella memoria di chi legge. E il segno distintivo di una scrittura come di autentica avventura dello spirito e del corpo.
Nando Vitali
Raccolta tra le più intense, che segna un punto di riferimento ben preciso nell’arco del proporre esperienze culturali, impegno sociale ed umano, alla scoperta di nuove e sempre affascinanti dimensioni della parola. Ciò che sembra naturale, in particolar modo per lo scrittore, è sempre un’illusione di quel flusso energetico che ci affascina per proporre avventure dell’io che, perdendo la sua unità interna, tenta di frantumare l’esperienza in varie dimensioni di schegge, che fondamentalmente propongono una continuità temporale, escludendo una entità astratta al di fuori di noi.
In effetti, aldilà dall’essere “eco-poesia” o “poesia intimista”, questa è poesia rivolta al sociale, a denunciare la realtà di oggi mediante la metafora, l’analogia e tutta quella connotazione simbolica affinché i termini: albero, radici, pioggia, vento, fiume, pietra, rapace con i suoi attributi, eccetera, potessero rappresentare l’uomo e le condizioni esistenziali di cui l’uomo stesso è responsabile.
L’infinito che sovrasta il mondo con una particolare complessità interpretativa rende il viaggio di una urgenza e di una verticalità essenziali per cui ogni sperimentazione di scrittura si dilata in immaginazioni senza limiti, tra lo stupore e la meraviglia, tra fughe e spazi luminosi, tra differenze sostanziali per il visibile e l’invisibile, ed è in questa traiettoria che molti versi ci trasportano in
visioni particolari tra il continuo disconoscere un mondo che vibra nel panorama attuale e la privilegiata condizione di guardare nel fulgidamente fluido ruolo dei riflessi. […]
Antonio Spagnuolo, dall’Introduzione
Molti dei testi di Radici perdute affrontano risolutamente un tema nodale del fare poesia: quello della dicibilità delle cose e delle idee, del rapporto tra la parola detta e la parola velata, tra il pensiero-immagine mostrato e quello suggerito.
Come l’autore operi la sua scelta di campo, beninteso prevalente e non monolitica, chiara ma non scontata, potrà essere ben evidente al lettore e bastino ad orientare la risposta gli inequivoci appelli alle «foreste in catene» ed alle «traiettorie di piombo», il perentorio dire della «tortura della zolla resa polvere» e della «pietra del mattatoio», che, già dal testo di apertura, sostengono il dolente e vibrante racconto del poeta.
La eco ricorrente, per usare un quasi-invariante nella scrittura di Santamaria, riporta i rumori del male che affligge la civiltà, nelle sue ramificate forme. Un male che è più cronaca che mito, più oggetto di denuncia che di speculazione sociologica o filosofica; un male che si tocca, si subisce, senza comprenderlo e, proprio per questo, senza accettarlo. […] Questa operazione avrebbe potuto costeggiare il rischio di portare dentro il testo ciò che l’assuefazione al più o meno identificabile gusto poetico corrente (intimista o minimalista o metafisico, etc.) identifica come soggetto alieno o non familiare, trasferendo nel verso un metalinguaggio cronicistico o, ancora peggio, una eco ridondante in senso retorico. Al contrario, il lettore potrà da sé verificare come l’autore abbia dominato tale rischio e non potrà non accorgersi di quali mirabili percorsi Santamaria, «pellegrino / di terra gonfia di solitudine e sangue» abbia saputo tracciare con le parole su «una spiaggia con gli occhi dei fiori marini» o per «muti deserti di scorie».
La parola di Santamaria, chiara nell’intendimento e nitidamente comunicativa è, infatti, per intrinseca vocazione, lirica e si esprime al meglio nell’espansione, a raggiera, di nuclei visivi o concettuali con accelerazioni metaforiche e immaginifiche, dove risalta la capacità pittorica e «vocecolore» dell’autore anche sulla pagina, («il buio ha annerito le ali degli uccelli sanguinari»; «Vive in luce di cristallo il rapace»; «ogni ramo riapre / ad un fiore verde la sua attesa») e con folate di «vento-idea» di sofferta e illuminata coscienza: «La morte semina soltanto tracce di paradiso»; «ha ripreso / la storia il suo orizzonte a ritroso»; «La mia paura si tinge in terrore: /…/ che ogni ombra s’appiani alla terra, / senza poter più piegarsi / alle cose vicine / da amica». […] E c’è, per contro, in questo atro luogo dove si grida il male e dove si mormorano le debolezze della propria finitezza, la ripetuta posa del seme della speranza: «Ma resta nella terra – forse – / a nascere / un seme / sfida all’oblìo». Un seme che nasce da quello stesso albero («o albero/ radice della mia coscienza») caduto «a radice divelta / da furioso vento beffardo»; «a radici spiantate dal vento».
Così Santamaria fa eco, chiara e fedele, al titolo. “Radici perdute” che affondano, si badi, in più strati di significati e invadono aree simboliche e allegoriche diverse.
Perduta è, secondo l’autore, la radice di una storia collettiva, non tanto dal suo tronco consolidato, che forse mai possiamo descrivere in assoluto come florido, verdeggiante, fruttuoso, ma da quelle occasioni, che pure nascono, appaiono come pianticelle coltivabili, alberelli della speranza che epoca dopo epoca portano qualche frutto ma che spesso vengono poi provati, piegati e sradicati dal vento intollerante del desiderio di potere. Perduta è la radice della propria vicenda individuale, messa a nudo da una terra che è solo più memoria e da un tempo che non si vuole fermare: «Essere ramo che non è più». Sommessamente, dove la voce del poeta si fa più intima e dolente è perduta anche quella radice che solo al buio dà ancora voce di sé, «confusa a quella delle cose» a portare «il ricordo dei nostri rami» e «il delirio amoroso delle foglie di primavera». […] Santamaria ha il sangue contaminato dalla follia dei poeti, gli occhi aguzzi sulle mutevoli forme del mondo, e questa strada non potrà che percorrerla, fino in fondo, ascoltando l’eco «dei giorni sulle stoppie» e «degli spiriti nel vento» e sentire il dovere, parola per parola, di ridarcene la voce e il colore.
Alfredo Rienzi, dalla Prefazione
— — —
Franco Santamaria, poeta, scrittore e pittore, è nato a Tursi (Matera), risiede a Poviglio (Reggio Emilia). Fino al 1997 ha insegnato Letteratura italiana e Storia negli Istituti Superiori di Stato.
A pensionamento avvenuto, ha intensificato l’attività creativa pubblicando dopo “Primo lievito” (Gastaldi, Milano 1964, poesie) le opere: “Storie di echi” (Ferraro, Napoli 1997, poesie), “Echi ad incastro” (Joker, Novi Ligure 2004, poesie), “Se la catena non si spezza” (Bastogi, Foggia 2005, racconti), “Passaggi d’ombra” (El Taller del Poeta, Spagna 2007, racconti), “Radici perdute” (Kairòs, Napoli 2009, poesie), in attesa di dare alle stampe “La mia valle non è l’Eden” (poesie), “Parola e Immagine” (poesia e pittura) e “I cavalli di grano” (romanzo).
È presente in riviste e antologie letterarie, in numerosi portali web di letteratura e gallerie d’arte. Pur partecipandovi raramente, ha conseguito 5 primi premi in concorsi letterari o artistici.
Come pittore, ha esposto con successo in Italia e all’estero; ha rappresentato l’Italia alla 4a Biennale Internazionale dell’Arte Contemporanea di Firenze 2003.
Hanno scritto della sua opera di scrittura e/o pittura una sessantina di critici.
Sitoweb: www.modulazioni.it/
Commenti