una vita popolata di premi nobel

Morto a 98 anni il premio Nobel per la medicina Renato Dulbecco

E’ morto a 98 anni Renato Dulbecco, biologo, medico e genetista italiano. Nel 1975 è stato insignito del premio Nobel per la medicina.
Le sue ricerche, compiute tra gli anni cinquanta e gli anni settanta, presso il laboratorio dell’Università di Bloomington, nell’Indiana, il prestigioso California Institute of Technology (Caltech) di Pasadena, l’Istituto di virologia di Glasgow e infine il Salk Insitute di La Jolla in California, lo portarono alla scoperta del meccanismo d’azione dei virus tumorali nelle cellule animali; scoperta per la quale è stato insignito del Premio Nobel.
Fonte: wikipedia,20 Febbraio 2012
http://it.wikipedia.org/wiki/Renato_Dulbecco

Intervista a RENATO DULBECCO
Piergiorgio Odifreddi

La vita di Renato Dulbecco è stata popolata, per non dire sovraffollata, di premi Nobel: fra i suoi compagni di scuola (Salvatore Luria e Rita Levi Montalcini), i suoi professori (lo stesso Luria e Max Delbrück), i suoi studenti (Howard Temin e David Baltimore) e i suoi amici (Jim Watson e Richard Feynman). Oltre, naturalmente, a lui stesso, vincitore nel 1975. Laureato in medicina a soli 22 anni, Dulbecco è stato il padre della virologia moderna, uno dei pionieri dello studio del cancro, l’alfiere della lotta contro il fumo, l’ideatore del Progetto Genoma, un divulgatore di talento, un opinionista da prima pagina, il presentatore di un Festival di Sanremo, il testimonial d’onore del Telethon e, “dulcis in fundo”, l’ispiratore di un personaggio di fumetti chiamato Dulby.
Benchè abbia già raccontato la sua ricca vita in “Scienza, vita e avventura” (Sperling & Kupfer, 1989), il 10 settembre 2002 ha generosamente acconsentito a ripercorrerne alcune tappe salienti con noi a Lugano, nella sua bella casa sul lago.

Lei ha studiato a Torino col professor Levi, dove ha avuto come compagni di studi Salvatore Luria e Rita Levi Montalcini. Non è strano che da una stessa scuola siano usciti tre premi Nobel?

Statisticamente, è un po’ improbabile. Però bisogna tener presente la personalità di Giuseppe Levi, che ha avuto un’influenza molto utile e benefica. Lui incoraggiava molto a fare, ma era estremamente critico: quando uno aveva un risultato e glielo faceva vedere, bisognava convincerlo. Il più delle volte trovava i punti deboli, che è quello che ci vuole per fare uno scienziato: può essere una ragione per cui queste tre persone sono poi arrivate a certi traguardi.

Siete stati molto uniti?

Certo. Con Luria ho lavorato negli Stati Uniti per due anni. Con la Levi Montalcini dividevamo l’ufficio a Torino, e per un caso siamo partiti per l’America sullo stesso vapore polacco, che si chiamava “Sovietsky”. Là non stavamo lontani, io a Bloomington con Luria e lei a San Louis, per cui ogni tanto ci trovavamo, chiaccheravamo, parlavamo di quello che facevamo. E’ stato un gruppo sempre unito anche dopo.

Come mai, dopo la laurea in medicina, lei aveva anche studiato fisica a Torino?

Dopo la guerra, quando sono ritornato a lavorare da Levi, l’idea dei geni mi affascinava. Ma nessuno ne sapeva niente e non se n’era mai parlato a medicina, nessuno ce li aveva insegnati. Io credevo che l’unico modo per studiarli fosse di usare radiazioni, e mi sono iscritto a fisica per sapere come le radiazioni funzionano, e come poterne analizzare gli effetti.

Non è stato dunque perchè, come tanti altri, aveva letto “Che cos’è la vita” di Schrödinger?

Non credo. Il fatto è che la fisica mi è sempre piaciuta, e anche la matematica. Già nella scuola media ero certo il più in gamba in quelle materie. Negli anni ’50 i fisici hanno poi avuto un ruolo fondamentale nella biologia. Crick, ad esempio.

Il suo contributo fondamentale fu la conoscenza della cristallografia a raggi X, che è stata essenziale per la scoperta della struttura del DNA. Diceva prima di essere andato a lavorare a Bloomington con Luria. Come lo ricorda?

Era una persona molto affabile. Lui e sua moglie mi trattavano come un figlio, benchè fossimo quasi coetanei. Poichè agli inizi il mio inglese non era adeguato, mi invitavano con gli amici per sentire e parlare. Sono stati veramente fantastici. Luria ha detto un giorno: “il mio più grande contributo alla biologia è stato di avervi portato Dulbecco”. Eh, eh. So che l’ha detto, ma non sta a me giudicare.

E secondo lei qual è stato il più grande contributo di Luria?

Il lavoro teorico che ha fatto con Max Delbrück, che dimostrava in maniera puramente matematica la presenza di cloni in popolazioni. E’ stato molto importante, perchè ha spronato la ricerca in quella direzione. Ha fatto dei batteri l’elemento chiave e centrale: per molti anni tutta la biologia molecolare è stata lo studio di batteri e fagi.

Lei ha poi lavorato anche con Delbrück, che ha condiviso con Luria il premio Nobel del 1969.

Lui ha avuto un’influenza notevolissima. Era una strana miscela: molto all’avanguardia, ma allo stesso tempo conservatore. Mi ricordo che quando Jim Watson venne a Caltech dopo la scoperta della doppia elica, lui ed io pensavamo che bisognasse organizzare una biologia molecolare. Siamo andati a dirlo a Max, ma a lui non piacque: diceva che era troppo presto, che non c’erano dati, che non valeva la pena pensarci. Da una parte aveva ragione, perchè avere idee senza riscontri precisi è pericoloso. Ma dall’altra parte uno deve pensare, altrimenti non fa niente.

A Caltech lei era amico del famoso fisico Richard Feynman, premio Nobel nel 1965.

Ho addirittura seguito un suo corso di fisica, sulla meccanica quantistica. Insegnava molto bene, era molto chiaro: anche uno come me, che non aveva mantenuto la connessione con la fisica, poteva seguirlo. Come persona era strana, con le sue manie dei bongos: gli interessavano specialmente i ritmi anormali, tipo 5/6 o 6/7. E io riuscivo a farli con lui.

Non mi dirà che anche lei suona il bongo!

No, no. Però potevo bilanciare il ritmo, per cui andavamo d’accordo. Cercammo di fare un lavoro insieme, ed è un peccato che non ci siamo riusciti. Tutto era chiaro, l’idea era perfetta, mancava solo un piccolo dettaglio tecnico. Non funzionò, ma invece di andare a vedere come mai io lasciai perdere, perchè avevo altre cose da fare. In fondo per me è andata meglio cosí, perchè altrimenti mi sarei orientato in un’altra direzione.

Prima parlava di Watson, col quale aveva già diviso l’ufficio a Bloomington.

Avevamo tavoli vicini. Era molto pazzerello, ma intelligentissimo. A quell’epoca il biologo danese Ole Maaloe aveva dimostrato che quando una cellula è infettata dal fago, ne eredita il DNA. Molta gente pensava che ci fosse un errore, e che il ruolo importante l’avessero le proteine. Watson stava ancora facendo il Ph.D. con Luria, ma sospettava già che il materiale genetico del virus fosse il DNA. Quando ha finito è andato a lavorare con Maaloe. Ha avuto dei problemi, perchè non volevano dargli una borsa di studio per studiare il DNA: pensavano che fosse tempo perso.

Parliamo invece di lei, e dei lavori degli anni ’50 che le hanno meritato il titolo di “padre della virologia”.

Luria aveva scoperto che, benchè un fago venga inattivato dalla luce ultravioletta, se più fagi infettano una cellula la loro sopravvivenza aumenta. Lui pensava che questa “molteplicity reactivation”, “riattivazione per molteplicità”, fosse dovuta a scambi tra i fagi che ne aumentavano la capacità di resistenza. Io invece scoprii, con metodi matematici, che il fenomeno era provocato da una differenza strutturale. Da lí ho potuto scoprire che i danni sono modificati da un’azione enzimatica, e che i geni di questa azione stanno nel DNA del virus.

Questi erano i suoi lavori a Bloomington. Cambiò qualcosa, quando andò a Caltech?

Capitò una cosa imprevedibile. Un amico del presidente dell’università, che aveva un herpes, stanziò una grossa somma perchè si cominciassero a studiare i virus patogeni delle malattie, invece dei virus giocattolo da laboratorio. Delbrück convocò Seymour Benzer e me, e ci chiese se eravamo interessati. Benzer, che era un fisico, preferí continuare il suo lavoro. Io, che in fin dei conti ero un medico, accettai. Proposi un adattamento del metodo quantitativo delle placche che si usava coi fagi, che è poi stato fondamentale per lo sviluppo dei vaccini e lo studio degli anticorpi.

E’ per questo che ha ricevuto il premio Nobel?

No, no. E’ per le ricerche sul cancro, iniziate quando Peyton Rous dimostrò l’esistenza del primo virus cancerogeno, in uno studio sul sarcoma dei polli che gli valse il premio Nobel nel 1966. Due miei allievi, Harry Rubin e Howard Temin, studiarono una leucemia dei polli diversa dal sarcoma di Rous. Per spiegare come facesse il virus ad avere un’azione permanente nella cellula nella quale entra, venne fuori l’idea che ci doveva essere un’interazione tra i geni del virus e quelli della cellula. Quando Temin discusse la sua tesi, Delbrück disse che non c’era nessuna prova: un altro esempio del suo pragmatismo.

Qual era il problema?

Il genoma del virus era di RNA, e non si capiva come potesse andare a finire nei geni di una cellula il cui genoma era di DNA: naturalmente, non si sapeva che c’era un enzima che permette di fare il passo indietro, dall’RNA al DNA. Allora io ho pensato di usare virus che avessero il DNA: ad esempio quello appena scoperto del polioma, che causa il tumore nei topi, e anche l’SV40, che agisce su cellule umane. Alla fine siamo riusciti a dimostrare chiaramente che c’è questa interazione.

Lei condivise il premio Nobel con Temin e David Baltimore, un altro suo studente: che effetto le fece?

Eh, eh. Fu interessante. In occasione della premiazione lei ha preso una posizione molto netta contro il fumo. A me questa storia non aveva mai interessato prima, perchè io non fumo. Ma ero in contatto col gruppo di Richard Peto, che aveva dimostrato che il tabacco produce il cancro del polmone. Avevano cercato di indurmi a lavorare con loro, e quando ho preso il premio Nobel sono venuti a dirmi che era un’occasione da non perdere. Io mi sono entusiasmato e ho fatto quella dichiarazione: sa, quando arriva il Nobel si diventa un po’ matti.

Non è un po’ strano che ci sia il proibizionismo contro le droghe, anche leggere, ma il libero commercio del tabacco?

Beh, il tabacco lo producono gli Stati Uniti, le droghe no.

Come le venne in mente, invece, l’idea del Progetto Genoma?

Dopo il premio Nobel decisi di concentrarmi su cancri di significato medico, ad esempio quello del seno. Era chiaro che molti geni dovevano cambiare attività col cancro, ma non si sapeva quali. A quell’epoca se ne conoscevano pochissimi, e ho pensato che bisognava assolutamente studiarli sistematicamente e sequenziare il genoma. Lo proposi nella primavera o all’inizio dell’estate del 1985, in una conferenza a Cold Spring Harbor, e mi ricordo il grande scetticismo della gente, che quasi pensava che fossi matto. Poi però qualcuno dei miei colleghi cominciò a dire che non era poi un’idea cosí pazzesca, e ho deciso di scrivere l’articolo per “Science” che uscí nel marzo del 1986.

Lei immaginava, nel 1986, che sarebbero bastati quindici anni?

Sí. Avevo fiducia, e l’ho anche scritto. Non avevamo le tecnologie, ma se la gente ci si mette le tecnologie arrivano. E infatti sono arrivate.

Non si poteva evitare di coinvolgere l’industria e i capitali privati?

La collaborazione con l’industria è utile, se si vogliono ottenere dei risultati pratici: l’esistenza della Celera privata ha spronato il Consorzio pubblico, che altrimenti sarebbe andato molto più lentamente. D’altra parte, la Celera non avrebbe potuto fare quello che ha fatto senza usare i dati del Consorzio: loro prendono il DNA, lo spezzano con ultrasuoni, esaminano i pezzi separatamente, e poi li rimontano facendo combaciare le estremità. Il problema è che l’ottanta per cento del genoma consiste di sequenze ripetute, e si fanno troppi errori: per rimediare, la Celera ha dovuto ricorrere a lunghi tratti di genoma forniti dal Consorzio pubblico.

E che cosa pensa della brevettazione dei geni?

Per me un brevetto è un prodotto ottenuto con mezzi non banali, e che abbia dimostrata utilità. Non so perchè sia stato concesso di brevettare un gene soltanto perchè lo si è identificato, senza sapere nè dov’è, nè cosa fa. Ma vedo che adesso si è creata una notevole resistenza e penso che alla fine ci sarà un cambiamento.

Qual è il ruolo dell’informatica nelle ricerche sul genoma?

Molto sviluppato e molto importante. Per esempio, non sarebbe possibile riconoscere a mano i dettagli delle sequenze che identificano i geni, e nemmeno far combaciare le estremità dei pezzi per ricostruire il genoma.

E della teoria dell’informazione?

Oggi si cercano di identificare quelli che vengono chiamati i sistemi dell’organismo, ad esempio i complessi formati dalle proteine nelle cellule, e c’è un gran bisogno delle teorie che descrivono questi sistemi.

Un’ultima curiosità. Nel suo libro lei ha fatto molti esempi di applicazioni della genetica al carattere. Perchè sembra che queste cose interessino la gente.

Sí, ma io volevo spingerla al limite e chiederle se anche le scelte religiose potrebbero avere un substrato genetico. Può essere benissimo, perchè tutti i popoli hanno qualche tipo di religione: evidentemente, tutti si pongono la domanda di che cosa c’è al di fuori di ciò che vediamo. Se questo possa aver avuto un significato evolutivo ed essere determinato dai geni, non si sa. O meglio, io non lo so. Penso che ci sia un’influenza tra genetica e religione, ma non so in che direzione: se è la religione a influenzare la genetica, o viceversa. O se interagiscono indipendentemente: forse quest’ultima possibilità è la più plausibile.

E lei è religioso?

No. E sono senz’altro contrario alle posizioni religiose sulle cellule staminali e sugli embrioni sovranumerari.

http://www.piergiorgioodifreddi.it

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