(ASCA) – Roma, 27 mar – Non sempre il medico che si ammala puo’ essere definito un buon paziente. E’ quanto evidenzia la ricerca che l’Universita’ La Sapienza ha realizzato per esplorare gli atteggiamenti e i comportamenti messi in atto dai medici rispetto alla terapia farmacologica dell’ipertensione arteriosa nel momento in cui diventano loro stessi dei pazienti.
L’indagine si e’ svolta in due step, di tipo quantitativo (interviste telefoniche) e qualitativo (focus group), su un campione di 3mila medici distribuiti per genere e area geografica . Tra tutti gli intervistati, il 17,7% ha dichiarato di essere affetto da ipertensione arteriosa. La malattia e’ piu’ diffusa al sud e isole (32,34%), dove gli uomini rappresentano il 25,47% e nella fascia di eta’ al di sopra dei 56 anni (79%).
La ricerca ha coinvolto 2.231 medici uomini (74% circa) e 769 medici donne (25% circa). Si nota una preponderanza del sesso maschile (20,3%) rispetto a quello femminile (11,2%).
Le piu’ colpite sono le donne medico nel nord-ovest (7,4%).
L’89% dei medici ipertesi ha in atto una terapia farmacologica e il trattamento e’ piu’ diffuso nelle regioni del centro e sud Italia. Dall’indagine emerge anche un elevato ricorso all’automedicazione, con un esiguo 30% che consulta il cardiologo. Le donne sono piu’ attente, dal momento che ricorrono allo specialista nel 40% dei casi.
Come i loro pazienti, anche la maggioranza dei medici ha scoperto di essere ipertesa in circostanze casuali e spesso in modo inatteso. Un dato interessante e’ la constatazione che molti medici, pur consapevoli dei fattori di rischio (ad esempio il fumo) e della familiarita’ che li caratterizza, non hanno verificato la presenza della malattia.
In modo analogo ai loro pazienti, i medici ammettono di aver avuto difficolta’ ad accettare l’idea stessa di malattia. Anche nei confronti degli esami clinici e strumentali molti medici ammettono una certa negligenza verso se stessi, mentre sono tutti molto attenti nei confronti dei loro pazienti.
Per quanto riguarda il monitoraggio della pressione nei mesi successivi la diagnosi e, soprattutto, il cambiamento di stili di vita, solo una minoranza dei medici ipertesi afferma di misurare la pressione regolarmente e di aver corretto alcuni dei fattori di rischio (come il fumo o l’alcool), ammettendo spesso che questo e’ dovuto a una situazione clinica diversa dall’ipertensione (ad esempio un infarto).
Nel quadro delineato dall’indagine emerge sicuramente una buona conoscenza dell’ipertensione da parte del medico di medicina generale che si traduce in una valida prassi clinica nella gestione dei propri pazienti ipertesi, in perfetta aderenza alle linee guida suggerite dalle Societa’ Scientifiche di Ipertensione e di Cardiologia (ESH/ESC).
Purtroppo pero’, raramente la padronanza della materia risulta essere sufficiente a mutare lo stile di vita del medico quando e’ lui stesso ad essere iperteso. Inoltre, solo una parte dei medici oggetto dell’indagine ritiene che l’essere ipertesi incida sul rapporto con il paziente: il fatto di condividere la medesima esperienza di malattia puo’ infatti incrementare l’empatia nei confronti dell’assistito e delle sue difficolta’, offrendo cosi’ al medico anche la possibilita’ di rassicurare e contenere le preoccupazioni del paziente.(27 Marzo 2012)
Commenti