di Gabriele Bullita
Carissima Nana,
ieri mattina sono stato al cimitero, da mamma. Era la sua festa. Annaffiando le piante, godevo del tepore di una primavera audace e, guardandomi intorno, riflettevo su come la devozione che offriamo ai nostri defunti, spesso, si riduca ad un mero esercizio di giardinaggio. Chi alleva le piantine più belle, più colorate, più fresche, ama di più, e più profondamente, i propri cari; è come se lo spirito vitale che infondiamo nei nostri fiori, mediante le cure più assidue che riusciamo a dedicare loro, renda i nostri morti meno morti, alitando su di essi un refolo di vita. E’ singolare tutto questo. Allora mi è capitato di immaginare che possa esistere, in qualche universo sconosciuto, un essere immane: non intendo un’entità metafisica, tutt’altro; parlo di una creatura fisica aliena, colossale, capace di abbracciare con un solo sguardo il sistema solare; buttando l’occhio, uno dei molteplici di cui è dotato, su quella piccola sfera rotante che è la Terra, osserverebbe con compassione quelle creaturine brulicanti, perpetuamente mobili, che si affannano di qua e di là alla ricerca di chissà che, alla conquista di qualcosa di ignoto, ma di certo ridicolmente minuscolo. Poi, d’un tratto, li vedrebbe rallentare, quindi arrestarsi per sempre, come fantocci meccanici con la carica esaurita; dopodiché, affidati ad un procedimento ormai rodato e pressoché infallibile, venire trasportati verso la loro ultima destinazione, una piccola cavità nel terreno, scavata da pii uomini-talpa addestrati a quella specifica funzione, subito opportunamente mimetizzata da fiori e piante che celano pietosamente la bruttura di quel che c’è sotto. Da quel momento, quelle piante, quei fiori, quegli arbusti, curati con lena mai sperimentata prima da altri esserini brulicanti simili a quelli inghiottiti dalla terra, prendono il posto di coloro che ricoprono, vivono in vece loro e si godono tutte le attenzioni amorevoli di chi, in attesa del suo turno, rimane. Ieri, dicevo, annaffiavo le mie piantine, l’elleboro, che fiorisce in inverno e d’estate soffre terribilmente il caldo, e quel cespuglio rigoglioso dalle foglie rosse, forse una photinia; poi, con un panno inumidito, lucidavo la foto di mamma, specchiandomi nel chiarore antico dei suoi occhi. Sotto i miei piedi, a pochi metri da quell’esplosione di vita che fiorisce e fruttifica grazie alle mie cure e da quell’immagine patinata di vita passata, che vita non è più, cosa c’era? Ossa, cenere, brandelli di stoffa, o forse neanche più quelli? E se fosse tutto qui? E se il grande mistero del mondo fosse una solenne montatura? E domani i nostri figli, e poi ancora i figli dei nostri figli, ripeteranno ignari gli stessi nostri gesti, coltiveranno vita da sostituire alla morte, fregeranno di colore il grigio della cenere. E così per generazioni e generazioni, fino alla fine dei tempi. E la devozione che dedichiamo ai nostri morti, cos’altro è se non culto della memoria, del ricordo impalpabile, dell’eco immateriale di chi non è più? Amiamo veramente l’anima di chi ci ha lasciato, ne avvertiamo la presenza immortale, crediamo davvero che da lassù, o da una dimensione non localizzabile, oltre i limiti umani, ci osservi, ci accudisca e ci riservi le sue preghiere? O semplicemente ci illudiamo di perpetuare l’effimera rimembranza di un’ombra che è sfilata via in eterno, di un alito di vento che ci ha sfiorato la fronte per un attimo, frazione infinitesima di un’eternità sfuggente che non comprendiamo?
Ieri mattina, per un istante, per un solo, fatale istante, mi sono sentito colmato, dolorosamente, del Vuoto immane dell’esistenza.
Gabri
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