avincola - ROMANAE

di Sandra Avincola

rec. Claudio Angelini

Casa Editrice Terre Sommerse

Abbiamo di recente ricevuto dalla professoressa Sandra Avincola un volume di traduzione poetica il cui carattere specifico, sostanziale diremmo, è l’indiscussa novità e originalità, che ne determina anche la bellezza e l’interesse. Si tratta, nientemeno, che di versioni da alcuni dei più noti poeti latini in dialetto romanesco! La pubblicazione, edita da “Terre Sommerse”, si avvale, per la prefazione, della prestigiosa firma del latinista scrittore Luca Canali, dal quale avemmo l’onore, anni fa, d’essere esaminati in quella disciplina, la lingua dei padri, che in tanta trepidazione ci aveva tenuti. Di che va alla ricerca, la Avincola? D’un modo di pensare, e di parlare, con cui gli incolti popolani coevi di Catullo o d’ Orazio si ponessero a trattare i temi ( cosa possibile ), anche alti, messi in versi da quei poeti? Quindi le prove dell’Avincola potrebbero essere l’immaginaria traduzione, rimessa tutta all’intuito, dell’equivalente linguaggio con cui, che so, il carrettiere di Roma vivesse in sé, come Catullo, una sconvolgente passione amorosa o, come Orazio, fra un bicchiere e l’altro, assumesse il ruolo di consigliere morale degli amici? Qualcuno potrebbe obiettare che frammenti di “sermo plebeius” ci sono pervenuti, testimonianza d’un modo d’esprimersi dei nostri antenati che però sarebbe improprio definire dialettale. Per questo il lavoro di Avincola non finisce di stupirci; la padronanza e la duttilità del linguaggio da lei usato è esemplare, come pure l’abilità metrica e ritmica. Ancor più ammirevole, nell’Avincola, è l’immaginazione, o potenza metaforica, per cui abbozzi da individuare ed enucleare contenuti nel testo latino divengono, grazie alla sua penna, tratti di vita concreta e attualissima. Tale constatazione dimostra che le potenzialità del linguaggio umano, d’ogni tipo, sono innumerevoli, ma che ogni linguaggio manifesta il proprio grado evolutivo relativamente al periodo storico, all’ambiente sociale, culturale, psicologico del parlante. E’ una considerazione che autorizza a ritenere legittima ogni traduzione, non solo quindi quella destinata per fini pratici ai contemporanei di chi la esegue, ma anche quella, come nel caso dell’Avincola, che voglia ricostruire sulla carta un modo di parlare peculiare d’una certa stratificazione storico-sociale, a conferma della trasversalità d’ogni forma d’espressione umana che, a seconda del contesto da cui emerga, può enunciare concetti similari nelle forme più varie. Pertanto l’autrice non intende restituire ai suoi contemporanei lo spirito originale degli autori che traduce; ella vuole solo sperimentare che cosa perda e che cosa guadagni la fantasia sentimentale dotta quando vesta i panni della più schietta fantasia popolare. Per tradurre qualsiasi classico in espressione moderna con l’intenzione di farlo restare classico, infatti, l’ultima soluzione da adottare sarebbe proprio quella di mettere in campo un dialetto. Si deve piuttosto ricorrere a una lingua essenziale, acronica, cioè priva d’ogni riferimento troppo netto all’epoca cui essa appartiene. Questo perché suprema cura del traduttore dovrebbe essere quella di far rivivere al lettore l’atmosfera umana e culturale dell’autore da cui traduce; se usasse una lingua troppo connessa alle contingenze, alle circostanze in cui scrive, il traduttore verrebbe meno al suo scopo. Ebbene, è noto che il dialetto, per sua natura, è quanto di più lontano si possa concepire da un tal tipo di lingua “acronica”. Il dialetto autentico non è che linguaggio parlato, squarcio di conversazione, discorso naturale fra due o più persone; quando assume forma scritta già si può dire che non sia più dialetto; la sua dimensione vera è la concretezza dialogica, con conseguenti riferimenti continui a fatti contemporanei ai parlanti. Ovviamente si presuppone che esso sia pregno di fantasia, non di cultura, anzi le più volte intriso d’ignoranza crassa. Il dialetto è una sorta di lingua primitiva, non astrae mai; la lingua divenuta nazionale tende invece alla formulazione di concetti astratti. Perciò il passaggio dal dialetto parlato a quello scritto implica sempre l’opera d’un autore colto che pieghi il materiale grezzo a determinate regole per ottenerne effetti comici o realistici. E, per tornare al modo in cui Sandra Avincola ha deciso di tradurre i classici, va tenuto presente, al riguardo, un fatto notevole, a proposito del “dialetto” romano. Virgolettiamo la parola dialetto, in questo caso, perché il romano, o romanesco, un dialetto vero e proprio non è, e non è mai stato. La sua vera natura era quella d’un dialetto centro meridionale; nel Rinascimento, con i papi medicei toscani, quella natura si modificò fino a perdersi. Il romano avrebbe dovuto essere una specie di lingua colta semplificata, ma finì con l’essere un “dramma” in atto, prima nel senso di “rappresentazione parlata”, poi sempre più nell’accezione di “realtà drammatica”, perché sin dalle origini fu espressione d’un popolo costantemente angariato e mantenuto a bella posta nel degrado e nella miseria. Un popolo che avrebbe colto volentieri l’occasione, per elevarsi, di Roma come capitale e centro della cultura classico-cristiana, ma che era destinato, per mancanza d’interventi adeguati, a storpiare, a causa della propria ignoranza, la lingua superregionale che era nata fra le sue mura. Parallelamente ad essa infatti nacque e si sviluppò il “romanesco”. Proprio per tali sue caratteristiche, proprio perché nato in antitesi a una lingua colta, quindi scritta, il romanesco possedeva ( e in parte ancora possiede ) due fondamentali registri, quello comico e quello drammatico; non tragico, che è cosa affatto diversa. Come dire, quelli relativi alla vita, elementare e materiale, e alla morte. Scarse sono le sfumature presenti nello spazio intermedio, e scarse quindi le parole per riferirsi ad esse. Del tutto assente quindi nel frasario romano ogni moto psicologico connesso con la raffinatezza, la contemplazione alta, la forma cesellata. C’è, invero, abbondanza d’arguzia, e ironia, ma non finezza, o penetrazione acuta. Notevole vi è il ruolo dell’intuito ( come, del resto, in ogni dialetto ), della fantasia istintiva e bizzarra, tendente soprattutto alla metafora, agli accostamenti insoliti, cose tutte facenti parte d’una sorta di stadio prepoetico dell’espressione; si passa infatti a uno stadio poetico quando un autore colto riesca a disciplinare, a dare forma a tale magma fantastico. Ma anche nelle mani di un autore provvisto di solidi studi, come fu per il romanesco trattato dal Belli, il patrimonio lessicale d’un dialetto rimane quello che è, finché non si profili, col tempo, un suo livello superiore di comunicazione. E tuttavia, potrà sembrare strano, il percorso evolutivo d’un dialetto è quello che conduce lentamente alla sua scomparsa, al fatto cioè che esso venga assimilato dalla lingua nazionale, l’unica in possesso della totalità dei registri con cui rendere ogni variazione espressiva. Spesso si dice di un autore, di un poeta, che è intraducibile, aggettivo di cui anche s’abusa, e che spesso tende solo a celare la difficoltà di rendere la “cifra” esatta d’un artista. Poi, nei fatti, si traduce di tutto. La vera impossibilità di tradurre si ha quando, per restituire un autore giunto a uno stadio avanzato d’espressione, non si dispone d’uno strumento linguistico altrettanto avanzato. Per chiarire meglio il concetto, proviamo a domandarci: sarebbe possibile trasporre i versi di Rimbaud o Verlaine in un qualche dialetto francese, o d’altra nazione, o magari ( con tutto il rispetto ) in lingua bantu? O, per restare da noi, sarebbe possibile tradurre D’Annunzio, appunto, in romanesco? Come si converrà, la cosa diventa tanto più impossibile e assurda quanto più il poeta affidi il suo messaggio alla raffinatezza e pregnanza del suo eloquio. Tutto si può provare, certo, ma ne verrebbe fuori qualcosa che non è nell’originale, cioè la conversione in termini concreti e sanguigni, dunque popolari, di quello che all’origine non era che una emozione rara e preziosa. Il problema di tradurre da una lingua antica in una moderna è semmai diverso, è essenzialmente un problema di sfumature. L’animo dell’uomo antico viveva determinate esperienze secondo una gamma d’emozioni diversa dalla nostra, per significare le quali aveva a disposizione un ampio numero di vocaboli, proporzionale all’importanza rappresentata per lui da certi fatti. L’uomo d’oggi, scaltrito dalla scienza, non dà eccessivo rilievo a certi aspetti del reale, pertanto riduce al minimo i lemmi ad essi collegati. E’ quello che genialmente aveva intuito il Leopardi quando, in un passo dello Zibaldone, disserta sulla quantità e utilità dei sinonimi nelle lingue antiche e moderne. Arrivando a parlare del latino egli non può non prendere atto della straordinaria capacità sinonimica di questa lingua, che nessun’ altra, antica o moderna, riesce ad eguagliare. Una realtà che invece gli sfugge è che il greco non è tanto ricco di sinonimi quanto di capacità di “costrutti” e combinazioni lessicali, peculiarità che imprime però a quell’idioma lo stigma d’un individualismo esasperato; il suo uso cioè è molto connesso con gli umori e i capricci di chi lo scrive. Diversissimo quindi dall’obiettività, dalla meravigliosa concisione e lucidità del latino, che non per nulla divenne lingua universale.
Su tali fondamenta dissentiamo alquanto da ciò che, nella prefazione al volume di Sandra Avincola, afferma Luca Canali, e cioè che l’Iliade del Monti e l’Odissea del Pindemonte sono solo roba loro e nient’affatto d’Omero. Se fosse tutta vera, quest’affermazione, la tradizione letteraria si sarebbe bloccata da secoli. E la mentalità, e la cultura, e lo spirito, e i costumi, e la poesia “elementare” degli atti, delle descrizioni? Nulla di questo sarebbe riuscito a passare, al lettore italiano, grazie a quelle traduzioni? Che non saranno sempre fedelissime, ma nella sostanza complessivamente accurate, e comunque nulla di paragonabile a quello che era stata, nel Cinquecento, la pur tanto acclamata Eneide del Caro. Esclusivo del traduttore, ad esempio, nell’Iliade del Monti, c’è il ritmo incalzante del verso e il gusto solenne dell’insieme, ma il gusto, si sa, cambia d’epoca in epoca. Senza tema di smentita è perciò legittimo sostenere che tutto il resto appartiene ad Omero. Ai tempi del Monti evidentemente non si concepiva poesia epica in linguaggio più contenuto o dimesso. Già il Pindemonte, con la sua Odissea, è meno popolare del Monti ( per il poema si osserva invece il contrario ), proprio perché il suo endecasillabo non è trascinante e vivido come quello del poeta romagnolo. Ma l’Iliade del Foscolo, che pure rende benissimo la asciuttezza, brevità, essenzialità d’Omero, e che comunque è un’opera d’arte, non ha retto il confronto con quella del Monti, perché costui si rese conto che allora la cultura italiana concepiva il “suono” dell’epica come lo sentiva lui. E molti ancora continuano a concepirlo così.
Come si vede, la traduzione può spesso esser questione di suono, di forma, di veste. Portarne tale aspetto alle estreme conseguenze, significa arrivare a questa prova di cui ora ci stiamo occupando, la traduzione di Sandra Avincola in dialetto romanesco di poeti latini. Se, come abbiamo ammesso, il “dialetto” della capitale difetta totalmente di finezza, d’introspezione ed eleganza, la domanda che ci si può porre è allora questa: a chi è destinato, che fine ha questo lavoro dell’Avincola? Non certo quello di travasare da un idioma all’altro dei contenuti sentimentali con la pretesa di lasciarli il più possibile inalterati, né quello di rispecchiare, attraverso il dialetto, il modo di essere d’uno strato sociale. Nessuna classe popolare oggi a Roma si identificherebbe più in quel modo di parlare, che tiene ancora molto del linguaggio del Belli, benché con diverse aperture a forme colloquiali recenti. Potremmo definire quello dell’Avincola un lavoro sperimentale estetico; esso si rivolge prevalentemente a un pubblico di persone colte, che abbia letto i classici latini e conosca i principali interpreti dello spirito popolare romano: Belli, Pascarella, Trilussa, ma si rivolge anche a una certa area sociale di media cultura, non necessariamente romana, che abbia imparato ad apprezzare il dialetto della capitale, soprattutto negli ultimi tempi e grazie alla promozione mediatica, per un suo aspetto particolarissimo, che è quello di “koiné” dialettale, o di espressione intermedia fra lingua e dialetto. A tale stato semantico espressivo è giunto infatti il romanesco: il suo impiego moderato ( o, come si direbbe oggi, “soft” ) consente l’immediata, sorgiva pregnanza della locuzione popolare, con nel contempo la sua massima estensibilità all’uso e comprensione nazionali. Nessun altro dialetto italiano presenta uguale flessibilità. Il volume “Romanae” di Avincola non è pertanto, come alcuno potrebbe ritenere, attestato di semplice evasione intellettuale, o fuga dalla realtà, rientrante nel quadro del cosiddetto disimpegno sociale postmodeno conseguente al crollo delle ideologie. Esso semmai ci vuole dimostrare che l’unica ideologia, o categoria di perenne attualità è quella del bello, dell’arte, comunque intesa o immaginata, poiché da essa sarà sempre lecito attendersi un contributo determinante alla civiltà, e quindi alla giustizia umana. La Avincola riesce a convincerci della inesauribile vitalità dei classici, destinati perché tali ad assumere le vesti più varie, a essere pensati nelle forme più diverse. Vogliamo estrapolare soltanto un paio d’esempi, molto significativi, dal suo libro di traduzioni. Il primo lo prendiamo da Catullo; è il componimento 101 del suo “Liber”, in distici elegiaci, dedicato alla memoria del fratello, che Avincola traduce con tre quartine a rime alterne. Osserviamo subito che in questo caso il testo romanesco è versione pressoché letterale del testo latino; la traduttrice non lo “rivive” popolarmente, come fa in quasi tutti gli altri componimenti, per mezzo di anacronismi fantasiosi, che ampliano il dettato originale. Il verso qui è stringato e denso, quasi quanto quello catulliano, di cui si ricorderà il Foscolo. Non per nulla dicevamo che il dialetto romano condensa molta della sua forza evocativa specialmente in una situazione di dramma. Quel gesto del popolano che accomoda “ li fiori attorno attorno”, fiori che “so fracichi de tutto er pianto mio” ( notare la forte suggestione tattile-emotiva di quel “fracichi” quasi a inizio di verso ), è il portato d’una fantasia viva ed icastica, che costruisce la scena con sensibilità acuta e immediata, nella quale echeggia sia l’originale latino sia una qualche esperienza specifica. Il secondo esempio lo ricaviamo da Orazio, dalla famosa ode 14 del II libro, quella dedicata a Postumo. Anche qui il tono è di dramma, sia pure temperato dalla accattivante bonomia e umanità del poeta. Qui ci ha sinceramente colpito il modo in cui la Avincola rende la perifrasi oraziana : “tristi…unda… omnibus…enaviganda”: “ quer zompo che ce fa tanta paura/ ne l’artro monno…” Se il pensiero d’un classico doveva esser concepito dalla mente d’un popolano, non poteva davvero suonare meglio di così. Il verso infatti è spontaneo e meravigliosamente prepoetico ( questione anche questa già accennata ) in una persona incolta, e poeticissimo quando proposto da un vero cultore delle Muse. Osservatelo bene; non notate che ha lo stesso ritmo, e la stessa struttura metrica, oltre che quasi lo stesso lessico, d’un verso celeberrimo? Quale? “L’aiuola che ci fa tanto feroci…” ( Dante, Paradiso, XXII, 151 ) Anche lì il divino poeta allude a un bel balzo, che aveva spiccato dalla terra verso il mondo celeste. Ecco dunque che Sandra Avincola è riuscita a conciliare gli stilemi classici con le cadenze della rozza ma genuina parlata della gente del suburbio ( che è venuta ormai a configurarsi quasi del tutto come piccolo o medio borghese ).
Tante altre cose vorremmo dire, ma ci accorgiamo di aver parlato già parecchio. E comunque quanto basta a invogliare il lettore ad accostarsi a questo libro godibilissimo.

Claudio Angelini
http://www.claudioangelini.it

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