di Francesca Santucci
PREFAZIONE
di Antonia Chimenti
La poesia di Francesca Santucci, così melodiosa, sempre, di una melodia che trae origine dai sentimenti forti e profondi che l’ispirano, si modula sul respiro, ma, al tempo stesso, soprattutto nella raccolta dal titolo “Rosa e croce”, segue il percorso ondivago della memoria, delle manifestazioni del pensiero, che non rispettano l’ordine imposto dalla logica e dalla razionalità, ma si protendono ad ascoltare la voce segreta dell’inconscio ed anche le varie voci delle associazioni e delle analogie, che la fantasia creatrice suggerisce.
Il dettato lirico ne risulta vivo, pulsante e multistratificato.
Sugli eventi (in questa raccolta dolorosi) incombe il giudizio negativo di chi esperisce la sofferenza e la “dice”, la canta in poesia. Questo giudizio Francesca Santucci lo attua stilisticamente attraverso aggettivi collocati tra parentesi, che arricchiscono l’espressione, proiettandovi, talvolta, una luce di contrasto, di antitesi (“luce/”ombra”, ”luminosa”/“beffarda” nel poema dal titolo “La nascita”, che apre la raccolta, ad esempio).
Il ricorso alla figura dell’ossimoro è frequente in molteplici forme in questa silloge, dove già il titolo evocativo ed icastico suggerisce l’ambivalenza, il contrasto doloroso fra bellezza/amore e orrore/morte, fra amore/dolore, come il poema “Rosa e croce” esplicita:
Cotidie tento d’allontanarmi
da questo crucifige
che de profundis imperterrito
come marea silenziosa
d’estate avanza perché insieme
permangono e l’amore e il dolore.
E allora una rosa e una croce
quotidiane io porto: appuntata
sul petto la rosa, conficcata
nel petto la croce.
D’altronde, la citazione di una riflessione di Virginia Woolf, posta in exergo, non lasciava dubbi:
“La bellezza del mondo ha due tagli, uno di gioia, l’altro d’angoscia, e taglia in due il cuore”.
Nell’ asserzione di Virginia Woolf, come nell’opera (non solo in questa) di Francesca Santucci il dolore non esime dal creare bellezza, dal ricreare la bellezza (anche nel dolore) che il mondo ha e che quest’Artista dona, sempre, quali che siano gli eventi e i moti ispiratori.
È il diritto e il rovescio della vicenda umana quello sul quale, a partire dalla propria, la Poetessa crea immagini belle, come sempre, ma in un fluire lento, melodioso, mesto di versi, che raccontano e che ci offrono il film di una vita, dalla nascita alla morte. Talvolta è una morte prefigurata e bramata, come nel drammatico componimento dal titolo “ Ho un coltello dalla lunga lama”:
Ho un coltello dalla lunga lama.
È lucido, argenteo, aguzzo ed affilato
adatto all’uso che l’uso
corrente ne consente.
E squarci e tagli e lacero contuse
ferite, e varchi, altri varchi, ricorda
(vene, vene violette e azzurre, e polsi,
polsi lisci e bianchi)…
Ma giorno verrà che all’uso che l’uso
corrente consente ne dissenta: allora
inferirà l’ultimo squarcio.
Le assonanze, le antitesi (“consente”, “dissente”) giocate su suoni aspri e duri, l’accumulazione di aggettivi, il ricorso alle anafore, il ritorno di vocaboli allusivi (“squarci”, “vene”, “polsi”) l’uso della punteggiatura (il ricorso ai punti di sospensione nella seconda strofa) evidenziano nel concreto tessuto del componimento poetico questo desiderio ossessivo di por fine al dolore, per il tramite di una ferita/dolore, questa volta non subìta, che ponga fine, definitivamente, alla sofferenza (“l’ultimo squarcio”).
In questo componimento i varchi evocano altri varchi della precedente raccolta dal titolo “L’ultimo viaggio” (la poetessa stessa lo suggerisce con l’uso del verbo “ricorda”), ma in una nuova accezione, dura, violenta, aggressiva, auto-distruttiva:
… E squarci e tagli e lacero contuse
ferite, e varchi, altri varchi ricorda
(vene, vene violette e azzurre, e polsi,
polsi lisci e bianchi)…
Ne “L’ultimo viaggio”, la raccolta precedente, è ancora viva, invece, la potenza dell’illusione, che ispira immagini luminose, tenere, dai colori pastello:
… Spiccherei il volo di là da ponente
un giorno di tempesta, rivolta verso oriente.
Forse lo troverei quel roseo varco
che congiunge al tramonto luce ed ombra,
quel raro frammento di luminosa luna
che abbaglia ed inargenta la tenebra notturna.
Il dolore, le ferite, la morte sono una realtà ineluttabile e ineludibile nella vita dell’uomo, ma anche nella natura, come già evidenziato nella raccolta “L’ultimo viaggio”, dove tutto l’universo partecipava della sorte dell’uomo. In questa raccolta la riflessione sui medesimi temi ispira immagini simbolicamente allusive come in “La recisione” e in “Candida, nivea, immacolata” (l’immagine del ramo secco reciso, l’immagine del foglio bianco imbrattato). Nella prima poesia la sensibilità della Poetessa ispira uno sguardo compassionevole sull’unica gemma, spiraglio ed auspicio di vita sul ramo secco, recisa insieme al ramo. La fantasia creatrice suggerisce una delicata, femminile similitudine con il cuore dell’uomo: “Quasi cuore… quella [la gemma] ancora palpitava”. In “Candida, nivea, immacolata” poeticamente vive un simbolo quale solo l’immaginazione femminile può elaborare; la vita è una carta bianca che dopo essere stata “imbrattata” da inchiostri di tutti i colori è scaraventata in un cestino. Il tono imperioso, insolitamente aggressivo dell’ultima strofa, conferisce un aspro, duro, tragico effetto al poema.
La consapevolezza, tutta femminile, dell’avventura “sporca” della vita, sollecita una meditazione sull’atteggiamento di difesa e di attacco nei confronti del male. La poetessa raffigura la quotidiana lotta che si deve combattere nel dolcissimo poema “Stanchezza di donna mi pervade”, ma riconosce che l’aggressività, che come donna deve ostentare, forzando la sua natura, é solamente apparente, perché la sua arma non miete vittime, essendo caricata “a salve”. La sofferenza non la inclina alla guerra o alla pace (impossibile); la inclina piuttosto alla misericordia.
La morte è prefigurata in maniera più forte sulle tracce e per effetto di un’altra morte reale, quella di un essere caro, molto caro, la Madre.
Da questo evento tragico scaturisce il pianto/rimpianto, che in poesia si traduce in visualizzazioni di desideri impossibili a realizzarsi, evocatori di un mondo di favola, la favola della Bella Addormentata, che si immagina inconsciamente di veder realizzata, quando chi amiamo ci lascia:
“Un bacio solo darei a risvegliarti”.
La triste realtà, tuttavia, è costituita dalla decomposizione fisica, pur naturale, ma inaccettabile per il cuore di chi ama un essere caro. A questo tema la Poetessa affida la sua addolorata e mesta riflessione, che la fantasia accende di immagini raccapriccianti in “Sole non ti riscalda, luce non ti ravviva”, “Cava testuggine ora è il tuo ventre”, “Rosea e bianca di latte e liscia e morbida”.
Nella serie dei poemi “in mortem” emerge la diamantina e musicale invocazione “Spero che dolce sonno sia la morte”, il cui dolce fascino è costituito dalla sapiente, armoniosa successione di vocali chiare e dalle allitterazioni e dall’impressione di un incedere lento, solenne, quasi a voler cullare questo sonno, dove la magia del canto di dolore e di rimpianto sembra attutire, come il sonno, l’effetto devastante della decomposizione (messo in rilievo da suoni onomatopeici ricorrenti), che tuttavia procede implacabile e si fa strada, verso dopo verso, a distruggere anche chi vive e ricorda:
Spero che dolce sonno sia la morte
che l’ali sue distenda a ripararti
perché non oda tu il tarlo roditore
che rode e che corrode il tuo bel corpo
che a arrugginire nella fossa giace.
Ti sia lieve, davvero, madre, la terra,
e coltre, che ti riscaldi tiepida
dall’infinito gelo delle notti,
che l’una dopo l’altra, senza tregua,
si susseguiranno, l’oro dei capelli
mutando in stinto avorio, cambiando
in vuota orbita, colore d’ossa opaco
il verde cangiante degli occhi,
allora luminosi. Ancora di sole un raggio
(almeno uno) ti risplenda, come il batterio
implacabile che infetta la ferita
pervenga a violentarti, ti brilli sulle labbra
(che sempre penso morbide e rosse e calde)
come un sorriso, come un bacio,
come quel bacio che, tremante d’amore,
deponevo io, bambina, tua figlia,
ora solo grumo di sangue, inconsolabile
per il tuo dolore.
Ai lutti per le morti naturali si associano le sequele luttuose di eventi altrettanto traumatici. Quello del grande amore perduto:
… E fu da te che appresi
a cavalcar l’onda.
infine venne il tempo
dell’assenza, ed il silenzio
ghiacciò più d’un mese
di febbraio, ma corto
non fu, però fu amaro,
come perdersi alla roulette
russa…
E all’amore, ancora una volta, come nella raccolta precedente, Francesca Santucci dedica numerosi componimenti, dove, in un crescendo drammatico, si assiste, come nella comune umana vicenda, alla nascita di un affetto, all’evocazione di sensazioni di dolcezza, che il sogno d’amore ispira, unitamente all’origine di una bramosia di identificazione (che è già prefigurazione di morte), e al distacco, nell’intensissima “Cupio dissolvi”.
Il lettore sensibile trattiene il respiro, stregato dalla straordinaria alchimia verbale e fonetica dispiegata in questa poesia, dove lo stile, di un’evidenza estremamente sensuale, fa vivere l’erotismo al femminile, in un processo di identificazione con l’altro, di annullamento e di estraneamento da sé. L’ambivalenza dell’amore ne fa risaltare la tragicità. La fusione fisica perfetta, ma univoca, non include il pensiero e le emozioni:
… Io che ti baleno
pensiero, tu che disegni
archi coi pensieri
e nello sguardo ti perdi,
lì, all’orizzonte,
in cerca di me, ed ignori
che io sono dentro di te.
Nel suo peculiare movimento dal particolare all’universale il tema dell’annullamento di sé è spunto per un’altra elaborazione creativa in “Dissolvenza”, che suggerisce, per analogia, un accostamento tematico; ma il processo, umanamente impossibile, di dissolvenza, di fusione con l’altro, che in “Cupio dissolvi” è ispirato dall’Amore, vissuto in una condizione di generosa donazione di sé, nel poema “Dissolvenza” è ispirato da un moto di negazione, di annullamento, che nulla di orrido possiede, ma che si dispiega come mesta meditazione, la cui efficacia stilistica è data dal procedimento anaforico, cioè dal ritorno di verbi all’infinito, il modo verbale più appropriato alla cogitazione, e da una efficacissima successione di immagini, che poeticamente visualizzano il processo a ritroso dalla vita al “nulla cosmico primordiale”.
L’evento dolorosissimo della morte della Madre ispira un’intensa rivisitazione del tempo dell’infanzia, che la maestrìa della Poetessa suggerisce attraverso l’evocazione di immagini tenere, ma al tempo stesso presaghe di futuri sviluppi dolorosi e angosciosi.
È una bimbetta impaurita da una minacciosa cinghia quella che si rifugia fra le braccia della nonna nel poema “Girotondo”, dove la magia incantevole è data ancóra dalla dolce melodia che accompagna questo gioco infantile, che inebria e consola, che fissa nella memoria l’immagine di una mamma giovane e bella, di una nonna dolce e teneramente disponibile, di un padre severo, minaccioso. Le braccia morbide salvano dal male e questo ricordo attutisce, ma non elude, la consapevolezza del male devastante. È solo una difesa temporanea, un rifugio nel ricordo, perché il male, che si materializza nella “cinghia”, esiste, allo stesso modo in cui nel poema “La nascita” incombeva già un “cono d’ombra”.
L’incanto della fanciullezza fra braccia morbide e protettrici di donna alimenta dolci sogni (momentanea tregua all’angoscia dell’età adulta), dove appaiono leggiadre ed innocenti immagini di scarpine bianche e fiocchetti e di baci, tenere sensazioni suscitate da pizzicotti, e di confortevole tepore goduto nel contatto fisico con la nonna, una nonna che non è più, ora, una presenza consolatrice reale, dal momento che giace nella sua “culla cupa/ dove il sole non batte”.
E la luna, che nell’ “Ultimo viaggio” aveva ispirato il sogno di una fantastica evasione, conserva intatta la sua bellezza cangiante, ma rivela, al pari della vita, la sua durezza di pietra, non è che “un gelido sasso”, che non alimenta più illusioni (“favole più non susciti”) ad una sensibilità esacerbata e maturata dalla sofferenza, nel drammatico componimento “Alla luna”, dove la tonalità tragica di fondo contrasta con lo splendore delle immagini e crea, come sempre, armonia estetica.
I sogni alimentati dai dolci racconti della nonna cozzano con una rude realtà di violenza.
E la realtà in questo caso è costituita dai “maschi”, bambini e giovani uomini: giocano alla guerra, esercitano un irresistibile fascino, manifestano ardenti desideri, ma non amano, “giocano” all’amore, e il sogno d’amore infranto delle donne sfuma. Straordinaria immagine quella della voluta di fumo azzurro, dove l’elemento sensuale, che caratterizza, per tradizione la virilità (penso all’odore di fumo), visualizza la componente vanesia di chi ‘dà fumo negli occhi’ e la componente arrogante e sprezzante di chi ‘fuma in faccia’, manca di rispetto, gioca coi sentimenti, incurante della sofferenza dell’altra.
E la scia di fumo che i gradassi lasciano dietro di sé è azzurra come i sogni.
Il riferimento ai sogni è più esplicito in “Fosti sogno”, dove la nota personale è più evidente e drammatica, perché congiunta alla precisione cronologica dell’evento traumatico (“il ventuno marzo”), evento traumatico fissato per sempre, in maniera indelebile, non solo sul calendario, ma nella mente e nel cuore, al punto da non poter più “andar avanti”, perché quell’Amore fu totale ed assoluto, completo . E il tema ritorna e la poesia eterna l’irruzione della passione, forte e tempestosa e tragica come il gioco della roulette (rischioso e mortale), nel poema “Fu duro gioco amarti”. E come non associare all’immagine della languida, paziente, dolce, lunga attesa di un ritorno il mito della sposa fedele, Penelope, dove, femminilmente, Francesca Santucci contrappone all’ardimentoso, volitivo e “infedele” Ulisse, la “fedele” sposa dal cuore “oppresso” in “Sciolte ha le vele”?
La componente pluridimensionale dello stile di quest’Artista, uno stile inconfondibile, è data dalla sua maestria nell’uso polisemico dei vocaboli, nella suggestione esercitata dal loro inedito e imprevedibile accostamento, che rinvia ad una più profonda riflessione, che il lettore deve conquistare. La parola suggerisce e anticipa, nella sua visiva immediatezza, resa più efficace dagli effetti sinestetici, un percorso interiore della riflessione, che arde nell’infiammato crogiuolo di contrastanti emozioni, sensazioni, passioni. Valga a titolo di esemplificazione la tonalità caustica e amara di “ Profumi acri ebbero i tuoi fiori”, dove i veli di sposa appaiono di sorpresa ad evocare un miraggio nel bel mezzo di una lunga sequenza floreale, volutamente ripetitiva e variopinta. I gigli immacolati, ultimo omaggio, non casuale, evocano veli di sposa. L’enjambement e l’aggettivo “immacolati”, collocato in posizione di contre-rejet, creano una sospensione, che fa riflettere con più intensità sull’improvvisa apparizione del romantico velo da sposa, le nozze, meta finale pazientemente attesa e preparata dai galanti doni floreali. In realtà i fiori gelosamente conservati imputridiscono, esattamente come l’illusione di un matrimonio; fiori e illusioni sono “entrambi” inganni. Nella “Notte di San Lorenzo”, il tema ritorna nella rievocazione di un ricordo più esplicito, dove gli inganni non sono fiori putrefatti, ma “polvere di stelle”, desideri che non si realizzano.
Il passaggio dal particolare all’universale è caratteristica ricorrente in questa silloge poetica, ma anche nelle precedenti. Un tema di riflessione vive, poeticamente, riproposto sotto svariate spoglie, dove, paradossalmente, si concretizzano le astrazioni. D’altronde solo l’ “ars poetica” può riuscire in quest’impresa. E la diversa modulazione del medesimo tema in “Dopo l’estate” permette solo parzialmente di abbracciare l’immensità di un estro creativo proteiforme. I “bianchi confetti”, evocati in un’insolita, fascinosa associazione con i bianchi gabbiani suggeriscono la gioiosa esaltazione di un casto e romantico sogno di fanciulla dagli occhi “lucenti”, che vive l’incanto dei prodromi di una storia d’amore unica ed assoluta con la forza e la tenacia di un attaccamento esclusivo, quale solo una piantina rampicante può esemplificare:
… Ristetti,
a quell’amore abbarbicata
come il convolvolo blu fiorito
al muro
L’esito doloroso è tuttavia anticipato, in poesia, nell’effetto sorpresa delle parole “male” e “cancro”, che completano la similitudine, visualizzando nel concreto tessuto stilistico la tragicità. Tutto giocato su di un ritmo insolitamente accelerato, a voler sottolineare la fugacità di un amore, il poema “Natale”, dove il ricorso sapiente alle allitterazioni a alle accumulazioni intensifica quest’impressione di “momento fugace” che percorre rapidamente le stagioni dalla primavera fino all’inverno, dove l’albero luminoso non avrà nessun valore reale, sarà “un fantasma nel parco delle nostre solitudini amare”. L’incanto dell’innamoramento ispira il movimento estatico di “Fu quasi amore”, tutto giocato sulle variazioni semantiche del vocabolo “parola” (“sussurro”, “mormorio”, “grido”), in contrasto con “silenzi”, “parola taciuta”, sullo sfondo fantastico di uno scenario naturale, dove l’universo intero è partecipe di questo bellissimo amore, fatto solo di sguardi. Un amore altrettanto casto è pure evocato in “Non dirmi”, il cui contenuto esplicita il titolo. Non occorrono parole per esprimere emozioni di pura gioia. Solo la Poesia, solo il Poeta può ricreare la magia di certi momenti della vita:
Non dirmi Lontana
è primavera!, io scorgo
già nel cielo di gennaio
presagi di turchini incanti
intendo già nell’aria
battiti d’ali giovani
Sento già nel cuore sussurri
di dolcezze nuove
e sotto la pelle un fremito
se tu la mano tendi,
e se all’abbraccio stringi
riscopro arcobaleni,
se poi un tuo bacio
mi sorprende vedo
Pégaso lontana. Ecco,
allora taccio,
e nulla più io temo
La consapevolezza dell’ineluttabilità del male, esperito nel più profondo della sensibilità ed acuito dalla sofferenza causata dalla morte di persone care suscita, come si è visto una vasta e contrastante gamma di sentimenti, che, in Poesia vivono in una prodigiosa, inesauribile, caleidoscopica, ma sempre armoniosa, femminile evocazione di immagini. La riflessione vive in un riuscitissimo amalgama con le emozioni, che sgorgano dal più profondo dell’anima e del cuore, e l’associazione di immagini visualizza, per chi legge, questo interiore percorso di decantazione, che, simultaneamente e prodigiosamente, crea bellezza e armonia. Le riflessioni procedono in un moto circolare che dal particolare conduce all’universale e nella maggior parte degli esiti poetici entrambi i motivi coesistono in armonia. Nel poema “Il presagio”, ad esempio, “l’ultima notte infinita” (leggi: la notte senza risveglio, la notte della morte), l’esperienza personale, il dato biografico, che ha sicuramente ispirato il poema, crea una visione ben diversa, a sorpresa, nel repertorio figurativo dell’universo abitato dai poeti; non è un’alba dalle “dita rosate” quella del giorno fatale, foriero di dolore, non è una dolce figura di sogno; è una “livida”, imprecisata figura, che allunga i suoi artigli, mentre il pipistrello volteggia in maniera sinistra a incutere timore e tristi presentimenti. La potenza espressiva del poema vive proprio nel senso di tensione, di apprensione che avvertiamo nell’ intravedere questa misteriosa minaccia dai connotati incerti, ma non certamente rassicuranti (”livida”, “allunga artigli”) e nell’elevato, polisemico registro della parola “attende”, seguita, a sorpresa e con effetto di lettura altrettanto polisemica, dalla preposizione “alla”( che implica un significato, meno usuale, più colto e più profondo, del verbo “attendere”). È una metamorfosi dinamica, multiforme, simultanea, creata per contrasto, rispetto a ciò che il cuore spera, quella che si dispiega dall’inizio alla fine del componimento, quasi compendio miniaturistico della raccolta poetica e della vita dell’uomo. Ed è sulla vita dell’uomo che Francesca Santucci medita nella poesia “L’affanno”, altra parola polisemica, evocatrice di reazioni psicologiche, comportamenti e fenomeni fisiologici, che caratterizzano il genere umano, durante la vita e all’approssimarsi della morte. In questo contesto, tuttavia, la parola “ affanno” suggerisce, come in Leopardi, il significato di dolore. Il dolore non se ne va, resta permanentemente a trafiggere il cuore, come la croce “conficcata nel petto” del poema “Rosa e croce”. Anche l’oblio è un’illusione, dunque, e probabilmente pure la morte non è un rimedio, non porta requie, se i morti inseguono i loro sogni e gridano. La Poetessa coglie ed esprime la loro voce e la trasmette al mondo dei vivi, se ne fa interprete:
Forse l’oblio non scende a portar pace
ed ancora gridano i morti
i loro morti sogni.
Non so dove loro abbiano pace,
forse inquieti nelle culle di legno
pure sognano ed urlano agli sconfinati
spazi sovrumane urla che orecchio
umano intendere non può. Eppure
talvolta pare che dal profondo
della notte nera lamenti laceranti
vivi si odano vividi più dei brillii
degli astri. E soffio non è di vento
di bufera, né stridio di gabbiano
in pena sopra il mare in burrasca
o canto triste di smarrita sirena:
è la voce dei morti che al mondo
va ululando che l’anima
vagabonda ancora sopravvive.
Estatici e ammirati, ci troviamo di fronte ad una nuova, dinamica “metamorfosi”, questa volta uditiva, dove la razionalità può solo stentatamente seguire il processo che, dietro al soffio del vento di bufera, allo stridio del gabbiano, al canto della sirena, che lancia il suo segnale di soccorso nel mare in burrasca, fa percepire “la voce dei morti che al mondo/ va ululando che l’anima/ vagabonda ancora sopravvive”. Il ricorso all’onomatopea intensifica l’effetto di questa creazione d’arte, la cui bellezza è data, ancora una volta, dalla verità di sofferenza che vi si annida, unita ad uno straordinario, generoso sentimento di compassione rivolto a tutte le creature viventi e morte, alle cose, agli elementi della natura, agli esseri leggendari. L’uso della sineddoche (“sirena”/”nave”) rinvia alla Sirena della leggenda, a Partenope”smarrita”/confusa per l’insensibilità di Ulisse. Ritorna questa sirena, già presente nella precedente raccolta in una femminile rievocazione del mito, che la Poetessa, partenopea di origine, ha assorbito col latte materno e con la sua completa accurata, profondissima formazione. Questo motivo ricorrente di Partenope, ora palese, ora più celato, fa ritenere non azzardata l’ipotesi di un’identificazione, che, tuttavia, alla luce di un’ulteriore maturazione, umana e stilistica, perde le sue connotazioni romantiche, superata com’ è, ora, dall’imperativo di cantare solo la sopravvivenza dell’anima. Francesca Santucci/Partenope, interpreta la voce delle anime, canta al mondo l’esistenza dell’Anima. L’Anima del cosmo vive nella sua Poesia.
Il delirio e il sogno, la creazione fantastica non sono “abiezione”, come la Poetessa, sembra voler pensare ed asserire in un momento di analisi razionale, che affida alla poesia “L’ipotesi”, dove affronta la sua differenza (la differenza geniale dell’Artista). Al contrario, la parola, la sua parola poetica (che è al tempo stesso confessione, catarsi, liberazione dal male, messaggio e testimonianza della vitalità dello Spirito) è per Lei e, tramite Lei, per tutti noi, “varco e scampo”:
Respiro nell’affanno, lampo
nella notte, squarcio
turchino nel procelloso cielo,
fondale nel mare, riva
ed approdo quando taciuta,
occultata, nascosta, improvvisa
la parola arriva: allora
si rivela varco e scampo
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