Uccisa per il suo sogno d’integrarsi. Sanaa Dafani voleva appartenere al mondo nel quale viveva. Voleva farlo nel modo migliore, lavorando e accettando la normalità della vita di quel Friuli che l’aveva accolta dopo la partenza dal sobborgo di Casablanca, dove era nata. Le coltellate che ieri sera le hanno strappato la vita, in un bosco di Montereale Valcelllina (Pordenone), hanno ucciso anche quel sogno che lei coltivava con l’entusiasmo dei suoi 18 anni, proprio come fanno altre migliaia di giovani immigrati che sono nati o vivono in Italia. Per l’omicidio di Sanaa, nel carcere di Pordenone è rinchiuso il padre, El Ketawi Dafani, 45 anni, aiuto cuoco in un ristorante di Pordenone. È accusato dell’omicidio della figlia, un delitto che molto probabilmente ha progettato e realizzato perché quella voglia di normalità della figlia, bella, moderna e simpatica a tutti, a lui, proprio non andava giù. C’era poi la relazione che la ragazza aveva avviato con Massimo De Biasio, 31 anni, socio del ristorante Spia di Montereale Valcellina, dove la figlia lavorava. Anche quella relazione a El Ketawi Dafani e alla sua famiglia (moglie e altre due figlie, di quattro e dieci anni) non piaceva per niente: troppa differenza di età, troppe diversità di cultura, una religione troppo lontana dall’Islam. E c’era anche la decisione di Sanaa che da alcune settimane non viveva più a casa: era da un’amica a Fontanafredda (Pordenone), secondo il racconto della mamma; a casa di Massimo, secondo le testimonianze di alcuni amici.
Alla fine per El Ketawi Dafani, forse anche un pò stressato dai digiuni del Ramadam, è diventato tutto eccessivo. Ieri sera – secondo la ricostruzione dei Carabinieri – ha atteso la coppia sulla strada che portava al ristorante Spia; ha bloccato l’auto in una zona boscosa; ha accoltellato la figlia, l’ha inseguita nel bosco e l’ha colpita più volte alla gola, quasi decapitandola; ha ferito il fidanzato ed è poi fuggito. I Carabinieri della Compagnia di Sacile (Pordenone) non hanno impiegato molto a risalire a lui. Un testimone ha visto una Ford Fiesta rossa allontanarsi dal luogo del delitto; ha dato ai Carabinieri alcuni numeri di targa che coincidono proprio con la Ford Fiesta rossa di El Ketawi Dafani. In casa sua, a Piezzo di Azzano Decimo (Pordenone), sono stati trovati degli abiti messi in ammollo, forse per cancellare le tracce di sangue. Un negoziante di Montereale Valcellina ha detto che ieri mattina El Ketawi Dafani aveva acquistato un grosso coltello da cucina, che i Carabinieri non hanno trovato, proprio come l’arma del delitto. E poi, Massimo, ancora sanguinante, accanto a Sanaa morente, al primo soccorritore che è arrivato l’ha detto chiaramente: «È stato il papà di Sanaa». Dalla tragedia di Sanaa è venuto anche il monito per la politica. «È un delitto orribile, disumano, inconcepibile, frutto di una assurda guerra di religione che è arrivata fin dentro le nostre case», ha detto il ministro per le pari opportunità, Mara Carfagna, che come la Regione Friuli Venezia Giulia si costituirà parte civile nel processo. «Casi terribili come questi – ha aggiunto – ci inducono a proseguire la strada del ‘modello italianò nell’integrazione degli immigrati: ciascuno, in Italia, deve avere il diritto di professare la propria fede come crede, ma – ha concluso – il Paese può accettarlo soltanto se questa è rispettosa dei diritti umani, compreso quelli delle donne, e delle leggi dello Stato». 16 sett. 09 –

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