Per questo motivo le donne devono farsi avanti, come recita il libro della manager di Fb. In uscita oggi, in tutto il mondo
Direttrice operativa a Facebook dopo aver lavorato per il dipartimento del Tesoro americano e Google ed essersi laureata ad Harvard, Sheryl Sandberg pubblica oggi il suo libro/manifesto su “donne, lavoro e la voglia di riuscire”: Facciamoci avanti (Mondadori, 276 pagine, 17 euro), tramite anche il ripercorrere delle fasi fondamentali della carriera della Sandberg, mette nero su bianco le considerazioni dell’autrice sul mondo del lavoro visto dalla prospettiva della donna che Forbes ha indicato come la quinta più influente al mondo. Il libro della Sandberg, però, non è un remissivo saggio analitico, ma un pamphlet polemico che ha scatenato il dibattito in Rete sin da prima della pubblicazione americana.
L’assunto della Sandberg, con cui si apre il libro, è tanto chiaro quanto, purtroppo, indiscutibile, anche nel nostro paese: “sono ancora troppo pochi i luoghi di lavoro che offrono la flessibilità e l’accesso ai congedi per i genitori necessari per portare avanti una carriera mentre si crescono i figli”. Perché è di questo, in fondo, che la manager di Menlo Park tratta: l’eterno dilemma, nel famigerato mondo del lavoro contemporaneo, che tutte le donne che desiderano diventare madri sono prima o poi costrette a fronteggiare: dover scegliere tra carriera e famiglia. Anche per la generazione dell’autrice, quarantaduenne, cresciuta in un’epoca in cui i miglioramenti e gli avanzamenti della società sono stati tangibili, “coniugare aspirazioni professionali e ambizioni personali si è rivelata una sfida superiore a quanto potessimo immaginare”, scrive infatti Sandberg. L’autrice, però, sposta sin da subito il focus del suo libro su un punto che, insieme agli ancora drammatici limiti delle strutture sociali in pressoché tutti i paesi del mondo, costringe le donne a una condizione subalterna rispetto agli omologhi maschi per i quali la carriera è troppo spesso più semplice, veloce e meglio remunerata: gli stereotipi che finiscono per influenzarne le scelte di vita e a limitarne, anche in partenza, le prospettive: “molte delle posizioni di potere sono appannaggio degli uomini, quindi le donne non prevedono di ottenerle, e questo, a sua volta, diviene uno dei motivi per cui non le ottengono. La stessa cosa si può affermare riguardo allo stipendio. in genere gli uomini guadagnano più delle donne, quindi la gente prevede che una donna guadagni meno. E così è”.
Il titolo del libro di Sheryl Sandberg è, da questo punto di vista, un incoraggiamento rivolto alle donne affinché non si rendano la strada ancora più complicata, autolimitandosi. Sandberg non fa mancare gli esempi e tra i tanti forniti a partire dalla sua carriera, ce ne sono due davvero emblematici: il primo riguarda un incontro, avvenuto presso la sede di Facebook, con con il segretario al tesoro Tim Geithner il cui staff era composto da donne. Al momento della riunione, le collaboratrici di Geithner, di loro sponte, scrive la Sandberg, si misero a sedere su sedie lontane dal tavolo, come a volersi autoescludere da un meeting cui erano state invitate a partecipare. Questo, scrive la manager del social network, è la dimostrazione evidente di come gli stereotipi possano agire in modo dannoso anche quando non manifestati. La risposta? Farsi avanti: quando si trattò di negoziare la propria assunzione a Facebook Sheryl Sandberg si fece avanti avanzando la richiesta di uno stipendio più alto rispetto a quello che le veniva offerto, una cifra che per quanto “equa”, “nessun uomo al mio livello avrebbe preso in considerazione di accettare”, proprio in quanto prima offerta. Mark Zuckerberg accettò la negoziazione “alzando l’offerta, estendendo la durata del contratto da quattro a cinque anni e consentendomi di acquistare una quota di capitale”, scrive.
Dal punto di vista dell’autrice, sul lavoro le donne devono essere pronte ad “assumersi più rischi” avendo bene in mente le “prospettive di crescita” prima che le possibilità di guadagno o di potere. E così è stato per la Sandberg quando si trattò, per esempio, di scegliere di lavorare per una Google agli albori. Anche da questo punto di vista, la Sandberg spinge affinché le donne non si autoimpongano barriere ulteriori che ne frenino i progressi. Anche la maternità non deve essere un limite: “chiunque sia abbastanza fortunato da avere diverse possibilità, dovrebbe tenerle aperte. Non entrate nel mondo del lavoro cercando già l’uscita. Non tirate il freno. Accelerate. Tenete un piede sull’acceleratore finché non dovrete fare una scelta. Questo è l’unico modo per assicurarvi che, quando arriverà il momento, ci sia una vera decisione da prendere”. Pianificare con eccessiva precisione può essere un limite. Limite che ie falle strutturali del mondo del lavoro riescono già di per sè ad accentuare, se anche negli Usa solo il 74% delle donne, dopo il congedo di maternità, rientra al lavoro e solo il 40% lo fa a tempo pieno. Altro punto da non sottovalutare è quello della divisione dei compiti tra i coniugi che, per la Sandberg, vanno chiaramente rivisti per una vera parità e per la sconfitta dello stereotipo che vede la donna come prima responsabile della crescita e della cura dei figli: “qualunque donna desideri che il suo partner diventi un vero compagno lo deve trattare come un partner alla pari, e altrettanto capace”. Non cedere allo sterotipo, insomma, significa anche non credere che i compiti casalinghi siano necessariamente occlusi agli uomini, la cui primaria occupazione, troppo spesso, è considerata essere la carriera e il mantenimento finanziario della famiglia.
Di certo la Sandberg è in una posizione vantaggiata – ma non ne fa mistero -, lavorando o avendo lavorato con ruoli di altissimo rilievo per aziende o istituzioni come Google o Facebook, tradizionalmente più avanzate dal punto di vista di queste tematiche: “sono orgogliosa del fatto che, anche prima del mio arrivo, Facebook garantisse congedi di maternità e paternità di pari durata”, scrive ad esempio la manager di Menlo Park, ma la situazione è tutt’altro che idilliaca nella maggior parte dei contesti. Per questo la Sandberg è stata accusata da Maureen Dowd del New York Times di essere la “ragazza ponpon del femminismo”. L’assunto della Sandberg, comunque, è limpido e ripetuto a gran voce: “dobbiamo parlare chiaro, identificare le barriere che tengono indietro le donne e trovare delle soluzioni”. Avanzare, farsi avanti e rivendicare sempre e a voce alta di doversi sedere a quel tavolo cui le assistenti di Geithner avevano rifiutato di sedersi. Solo facendosi avanti con vigore, la battaglia per l’ uguaglianza può essere vinta. D’altronde, chiosa la Sandberg, solo il 24% delle donne si definisce “femminista” ma il risultato sale al 65% se la definizione viene svolta in “femminista è qualcuno che crede nell’uguaglianza sociale, politica ed economica per entrambi i sessi”. Questo, conclude la Sandberg, “è un grande passo nella giusta direzione”.
11 marzo 2013 di Philip Di Salvo
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