Un paio di anni fa ho affrontato con insegnanti, studenti e studentesse del territorio dove lavoro il tema del diritto al cibo. In più di un’occasione abbiamo dialogato sulle nostre abitudini alimentari: tra una ricerca, un articolo e una discussione ci siamo spesso interrogati su quanto fosse corretto promuovere una dieta piuttosto che un’altra, facendosene sostenitori e prima ancora praticanti. Ci sembrava di certo opportuno parlarne, scandagliarne le ragioni, i vantaggi e gli svantaggi, ma di sicuro concordavamo sulla libertà di ognuno e ognuna di adottare il regime alimentare che ritenesse più opportuno per la propria salute, senza dimenticare se possibile e allo stesso tempo un onesto e schietto punto di vista sulle conseguenze delle nostre abitudini a tavola sugli altri (e sulla loro povertà) e sul Pianeta.
Ora, a quanto pare, la buona prassi di lasciare che alcune questioni prevalentemente attinenti alla sfera privata – come ad esempio la scelta di come e con cosa alimentarsi – restino tali sembra venir meno. E non solo perché chiunque si improvvisa medico o dietologo dell’ultima ora e pretende di possedere la scienza della giusta dieta e delle sue conseguenze, ma anche perché alla politica (e il #fertilityday ne è solo la più recente conferma) piace evidentemente molto dare indicazioni sui comportamenti da tenere dentro le mura di casa propria, soprattutto quando ci vanno di mezzo i bambini e le bambine. Ma questa, direte voi, si chiama tutela e non ingerenza. E io sono d’accordo. In parte.
Il fatto è questo: la proposta che da un po’ di tempo fa discutere non solo il Parlamento è quella di una deputata che suggerisce di impedire che “genitori radicalizzati” impongano alla propria prole un’alimentazione di orientamento vegano, che esclude cioè l’assunzione non solo di prodotti animali (quindi carne e pesce) ma anche di loro derivati (quindi essenzialmente uova, latte e miele). Della sua appartenenza politica poco ci importa, perché la questione è trasversale e non riguarda uno schieramento in particolare. Riguarda piuttosto la tutela dei minori, e forse, più in generale, la salute pubblica. La dieta vegana impedirebbe infatti un adeguato sviluppo fisico e cognitivo, rappresentando un rischio da non sottovalutare per i più giovani. Se da un lato quindi mangiare vegetariano – e nella versione più radicale vegano – viene nella premessa della proposta tollerato in quanto “responsabilità di una scelta” nell’adulto, la sua adozione “forzata” per un minore di anni 16 si ritiene possa rappresentare un grave danno, essendo la dieta “carente di zinco, ferro tipo eme (contenuto in carne e pesce), vitamina D, vitamina B12 e omega-3”. Non si menzionano ovviamente alimenti sconosciuti alla maggior parte dei bambini onnivori – ma decisamente presenti nelle diete vegane – come ad esempio (e ne citiamo solo alcuni) l’olio di semi di lino per integrare l’omega 3, la salsa tahin con legumi e limone per il ferro, la crema di mandorle per il calcio, le alghe per lo iodio. Si fa invece appello alla Costituzione italiana, in particolare al dovere dei genitori di mantenere i figli tutelandone la salute. Ecco in sunto il motivo della proposta che introduce una disposizione penale speciale proprio per i genitori “inadempienti”.
Personalmente non ritengo di avere sufficienti elementi per giudicare se una dieta vegana sia realmente pericolosa per un minore o no. Ritengo però di avere la facoltà di elaborare un paio di considerazioni utili quantomeno a problematizzare la questione. Per prima cosa, le fonti: informazione ed educazione alimentare sono fondamentali, dentro la famiglia, dentro la società e dentro la scuola. E non mi riferisco soltanto alla piramide alimentare di cui tutti abbiamo più o meno vaghi ricordi dai sussidiari scolastici. Mi riferisco anche e soprattutto alle geografie dell’alimentazione, quelle che ci parlano di provenienza dei prodotti e filiere; mi riferisco alla lavorazione di ciò che mangiamo, che ci racconta di diritti negati o calpestati (di animali e anche di uomini, sia chiaro) e di qualità scadente; mi riferisco al fabbisogno reale e a quello indotto da spot pubblicitari e infime operazioni di marketing. E mi riferisco, perché no, anche a fonti come l’American Dietetic Association, i cui studi hanno dimostrato come una dieta vegetariana o vegana, purché ben pianificata, sia adatta non solo agli adulti ma anche a donne in gravidanza e bambini.
La seconda cosa su cui ritengo vada suscitato un pensiero è la preoccupazione pubblica per la salute, preoccupazione che sommariamente cavalca l’onda di sporadici avvenimenti di cronaca (spesso smentiti o rettificati in un secondo momento), ma che tralascia la quotidianità latente e proporzionalmente molto più preoccupante e frequente: parlo di bambini e adolescenti obesi, drogati di merendine e fritture, di zuccheri e grassi animali e vegetali assunti in dosi esagerate – dunque eccessive, dunque dannose. Anche loro saranno gli adulti di domani, che peseranno sul welfare in maniera figurata molto più che nei fatti (basti pensare al tasso di incidenza di diabete e cancro). E per questo, allora sì, qualunque genitore sarebbe perseguibile.
Certo è che in ogni ambito – e quindi anche in quello alimentare – gli eccessi ideologici sono nefasti. Contrastarli con i reati penali, i divieti e le sanzioni anziché con la formazione è primitivo, ma è ancora il modo più noto e più apprezzato in Italia. Di fatto, il cibo è ciò che ci cresce e ci crea nel più elementare e meccanico dei modi: ci costruisce. Una dieta sana, con il giusto e adeguato apporto di sostanze nutritive è anche una questione di tempo, da avere e da dedicare alla scelta stessa del cibo e alla sua preparazione. È anche però una questione di conoscenza: se un adulto può adottare uno stile di vita vegano perché “va di moda”, un genitore difficilmente proporrà al proprio figlio uno stile alimentare che ne comprometta il corretto e sano sviluppo, anzi. Spesso chi adotta alimentazioni vegane è scrupoloso e informato più di altri sul cibo e sulle sue proprietà nutritive, proprio perché pone maggiore attenzione a come garantire un corretto apporto di nutrienti pur eliminandone altri dalla propria tavola, e spesso consulta a questo scopo bibliografie, pediatri e nutrizionisti specializzati. Rinunciare quindi a determinati alimenti senza sostituirli in maniera ragionata e appropriata non ha senso ed è sicuramente pericoloso, ma lo è altrettanto stigmatizzare come “imposizione” una scelta genitoriale che non è di fatto diversa da altre simili, derivanti invece da ragioni legate alla religione, alla cultura, alle tradizioni alimentari o anche, tristemente e semplicemente, dall’ignoranza su ciò che arriva nei nostri piatti. (Anna Molinari).
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