di Franco Santamaria
Prefazione di Letizia Lanza
Postfazione di Pasquale Matrone
Letizia Lanza
Prefazione
“Forse, in bui cimiteri o grandi oceani del cielo / a infinito affaticamento, a definitiva perdita dell’essere / sprofondano moltitudini di stelle. // Inutilmente, quando ci acceca la notte / e fiumi di tristezze paurose infiammano le vene, / quella che fu nostra per scelta cerchiamo. // Così, questo grumo di terra del sud / che ci appartiene e in muta radice e ingiallito costone / consuma: è già una stella che langue, // così povera e appena tremante / sul filo dell’estremo orizzonte” (Così povera e appena tremante).
Questi, a mio avviso, sono tra i versi più densi e struggenti – anche nella dotta reminiscenza pascoliana – che Franco Santamaria dedica al nostro Meridione in Storie di echi, del 1997. Una raccolta di poesie preziosa, dove l’Autore con evidenza icastica esprime il suo modo di vedere – e di vivere – il fardello dell’esistenza, accogliendo il “grumo complesso di angosce, sogni e paure, che sono parte integrante di una personalità che, nonostante il forzato distacco, mantiene saldo il rapporto umano e ideale con la propria terra” (Vittorio Mazzone).
Certo è una terra ardua, amara, umiliata, quella di Santamaria – la Lucania – abbandonata nella prima giovinezza eppur sempre presente, sempre rimemorata e sinceramente rimpianta – instaurandosi con essa una sorta di intensissimo, sofferto, rapporto di amore-odio, nel cui vivere si alimenta l’ansia – mai sopita né, d’altro canto, realizzata – di riscatto e trasformazione della realtà. Un mondo contadino e di paese ricorrente in questi lunghi racconti – tutti (tranne il terzo, che intitola la raccolta) narrati in prima persona, al fine di meglio delineare i personaggi e di render più immediatamente percepibili le problematiche sottese alle vicende – fatti di vario momento, che invischiano una folla di diseredati lacera e dolente, non di rado abbrutita dalla miseria, dall’ignoranza, dall’egoismo.
Scarno il dettato, ispirato ai canoni del colloquiale – ossia del linguaggio dialettale parlato, reso più vivido dall’insistita ripetizione di idee e di espressioni; rapida la narrazione, talora scandita da tempi verbali in successione martellante. Senza leziosità o lenocinii retorici, senza ammiccamenti vani – al contrario, con brutale efficacia – la parola narrativa di Santamaria si disnoda consapevolmente realistica, benché non di rado invenata di squarci surreali o comunque fortemente allusivi. Il che vale in special modo per “Se la catena non si spezza” – ove si consuma una sorta di allucinato riscatto dall’irrevocabilità della morte, tutto giuocato tra suggestioni oniriche e patologia mentale.
Quanto alle fabule, facendo perno su pochi dati veri – tratti dalla cronaca giornalistica – si svolge a spirale il retroterra d’invenzione, marcando gesti e psicologia essenziali, sbozzando figure tetre o toccanti nella indifesa umanità: il carbonaio assassino, tirato su a pugni schiaffi frustate, con le braccia segnate dalle bruciature e il male “inchiodato addosso”, coatto in prigione a combattere contro un freddo che “manda a pezzi i nervi” e disordina i pensieri – per il quale “solo odio c’è, da tutte le parti e da ogni cosa”; il disoccupato cronico, che tiene lo “sfottò” sulla bocca “come il prezzemolo dentro ogni minestra” e non la smette di fare scherzi perversi contro tutti (il “frottolaio” politico, la puttana di turno, il cugino scemo), “uno di quelli proprio testardi, che muoiono di fame piuttosto che lavorare”; i paesani, “tutti una melma”, che fanno e ripetono sempre le stesse parole, le stesse cose, ingolfati come sono in una “vitaccia” monotona e alienante, con la fatica al massacro e mai niente di speciale: “sempre le stesse frasi gli stessi passi lo stesso lavoro, sempre lo stesso stesso”. Oggi – e in modo identico a oggi, “il giorno appresso e poi, il giorno appresso e il giorno appresso”.
Del resto hanno la “mentalità cretina”, i contadini, “lavorano notte e giorno, le feste, con la neve, con la pioggia, con la febbre addosso, e poi vendono i prodotti a un prezzo molto più giù…, e poi il ricavato, lo passano sano sano all’esattoria. Così vivono sempre alla stessa maniera, come tante bestie”. Vittime sacrificali, insomma, per le quali “pure il mangiare è monotono, mai il secondo si mangiano i contadini, all’infuori dei giorni festivi più importanti: il giorno di Pasqua, il giorno di Natale, a Capodanno, il giorno di san Filippo, che è il protettore del paese, e il giorno della Madonna di Anglona, che è la protettrice del paese”. Poi, una volta mangiato, si slegano le scarpe vicino al letto e si buttano a dormire – sempre “con le stesse parole per la testa”, sempre con la stessa simil-vita davanti.
Ciò, fino all’imprevedibile risveglio. Anzi, fino all’illusorio rifiuto della catena, da sempre – per sempre? – “utilissima come l’acqua, il pane e l’aria, per imprigionare animali e uomini”; nel caso, poi, sia fatta di carne umana, “resistentissima, di lunghissima durata, lavorata così finemente che quasi non si vede”.
Un risveglio fallace, dunque. Un rifiuto che, nella follia ribalda del quarto e ultimo racconto (Non sono come te) passa attraverso l’esaltazione malata della propria sessualità (con donne e bambine – la “Grande Scoperta”). Un incubo tranquillo e abbagliante presentato come assoluta normalità, una “claustrofobia all’aria aperta” – per dirla con Sandro Montalto. Ovvero, una stasi ossessiva che non consente mai un effettivo cambiamento, bensì appena un’immaginaria/immaginata katastrophé.
Ed è questo, forse, che inviva il particolare fascino di queste storie, rendendole avvincenti e, al tempo stesso, (ri)destando in chi legge riflessioni profonde e remote – arcane – inquietudini.
Letizia Lanza
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… I racconti di Franco Santamaria sono fatti di pietre poggiate l’una sull’altra con impietosa e consapevole determinazione, non per edificare case eleganti e dalla architettura sofisticata bensì solamente aridi e sinistri muri a secco ricoperti di tetti di lamiera e di sterpaglie, pronti a ospitare dannati dalla schiena piegata da ingiustizie secolari e da una rassegnazione priva di confini che ne dichiara e ne consacra la resa definitiva a una sorta di irreversibile ferinità…
(dalla “Postfazione” di Pasquale Matrone)
FRANCO SANTAMARIA è nato a Tursi, cittadina della provincia di Matera. La natura difficile della sua terra, non diversa comunque dal resto del Meridione, e il conseguente irrisolto stato di disagio e di sofferenza hanno avuto gran peso sulla formazione intellettuale e politica di Santamaria.
Laureato in Lettere Classiche, ha coperto, per gran parte della sua attività scolastica, fino al collocamento in pensione nel 1998, la cattedra di Letteratura Italiana e Storia presso l’Istituto Professionale di Stato di Afragola (Napoli).
Da pensionato, ha potuto dedicarsi con maggiore tranquillità e costanza alle attività creative di poesia, narrativa e pittura. Ha pubblicato: Primo lievito (poesie – Gastaldi, Milano 1964), Storie di echi (poesie – Ferraro, Napoli 1997), Echi ad incastro (poesie – Joker, Novi Ligure 2004), opera quest’ultima che sta conseguendo grande successo di critica e numerosi premi, e infine Se la catena non si spezza (racconti – Bastogi, Foggia 2005). In Internet ha pubblicato da alcuni anni Parola e Immagine (opera sperimentale di poesia-pittura) e L’Immagine (catalogo dei dipinti).
È presente in numerose riviste e antologie letterarie, e in un centinaio di siti web e gallerie d’arte.
In qualità di pittore, ha esordito da autodidatta nei primi anni Ottanta, esponendo con successo in Italia (Napoli, Modena, Taranto, Roma, Firenze, Brescia) e in Svizzera (Losanna, Yverdon, Corcelettes, Paudex). Ha rappresentato (per la pittura) l’Italia alla Quarta Biennale Internazionale dell’Arte Contemporanea di Firenze – 2003.
Bastogi Editrice, Foggia 2005 – ISBN 86-8185-818-5 – € 8,00 Tel. 0881.725.070 – bastogi@tiscali.it
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