Interessante questa conversazione-intervista che Seldam Rodman ha con il grande pittore Edwrd Hopper: veniamo a conoscenza delle sue preferenze in fatto di pittura e di poesia, dell’importanza di dipingere dal vero, dell’esercizio, della bellezza delle parole.

Era un giorno molto afoso a New York, e forse per questo abbiamo iniziato a parlare dei piaceri della campagna. Ho chiesto a Hopper se i quadri li dipingeva in studio o direttamente dal vero.
“Dal vero li dipingevo una volta,” risponde “ma adesso no, nemmeno a Truro dove trascorriamo l’estate. Eppure qualche volta mi è d’aiuto dipingere dal vero, davanti alla natura. Ho fatto infiniti schizzi, che aiutano la memoria”.

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 RODMAN CONVERSA CON EDWARD HOPPERS

Hopper crede in un tirocinio classico, condotto attraverso lo studio della modella, dell’anatomia e simili.
“Come un suonatore di pianoforte deve sempre tenersi in esercizio,” osserva “così ci vogliono anni di tirocinio tecnico per arrivare a dire quello che si ha da dire, ammesso” (fa una pausa, sorridendo) “che si abbia qualcosa da dire”.
“Potrebbe elencarmi i pittori antichi o contemporanei che la attraggono maggiormente?”.
“Secondo me ,non dovresti rispondere” interviene sua moglie Jo.
“Rembrandt e Goya,” risponde lui “Degas, Eakins, Méryon”.
“Chi?” faccio io.
“Méryon, Charles Méryon. Non conosce le sue opere?”.

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 RODMAN CONVERSA CON EDWARD HOPPERS

Confesso di non aver mai sentito parlare di Méryon, ma quando Hopper va a prendere un libro e mi fa vedere delle incisioni famose come Doccione di Notre-Dame, mi rendo conto di averle già viste, anche se non ricordavo il nome dell’artista. E’ un lavoro sensibile, anche poetico, che supera per certi aspetti l’accademismo di fine Ottocento, ma il fatto che Hopper ponga Méryon tra i giganti citati prima non finisce di sorprendermi.
Gli chiedo,forse perché mi ricorda un personaggio di Robert Frost, se conosce la poesia di Frost. Risponde che la conosce bene.
“Invece Coleridge” prosegue “sacrifica l’emozione vera alla bellezza delle parole”.
“Coleridge?” dice sua moglie.
“Sì, Coleridge: In Xanadu Kubla Kahn fece / un grazioso regio decreto / per cui Alfeo, il divino fiume / corre lungo il suo immenso greto / verso un mare senza lume. Cosa vuol dire? Ben poco. E adesso sia in poesia che in pittura si dice ancora meno. Il gruppo degli espressionisti astratti sta operando con una pittura così indecifrabile e impotente, che se anche avessero qualcosa da dire non potrebbero dirlo. A volte la loro pittura mi piace per i suoi colori luminosi e l’intelligenza del segno, ma la considero essenzialmente decorazione, e ho il dubbio che per tutti sia così. L’arte per l’arte, portata alle estreme conseguenze, diventa un’arte flebile, evirata. L’originalità non è una questione di inventiva o di tecnica, specialmente di tecniche alla moda. E’ qualcosa di molto più profondo: è l’essenza della personalità”.

LE DATE DI UNA VITA

1882: nasce a Nyack, piccola cittadina sul fiume Hudson, da una colta famiglia borghese americana.
1900: entra alla New York School of Art, un prestigioso istituto che ha sfornato nel tempo alcuni dei nomi più importanti della scena artistica americana.
1906: dopo il conseguimento del diploma e il primo impiego da illustratore pubblicitario alla C. Phillips & Company, Edward Hopper compirà il suo primo viaggio in Europa, visitando Parigi, dove sperimenterà un linguaggio formale vicino a quello degli impressionisti
1907: visita Londra, Berlino e Bruxelles.
1908: tornato a New York, parteciperà a un’altra mostra di controtendenza organizzata da Henri presso l’Harmonie Club (un mese dopo quella del Gruppo degli Otto).
In questo periodo la maturazione artistica di Hopper avviene con estrema gradualità. Dopo aver assimilato la lezione dei più grandi maestri, fra tentativi ed esperimenti arriva a maturare un suo linguaggio originale, che trova la sua piena fioritura ed espressione solo nel 1909, quando deciderà di tornare a Parigi per sei mesi, dipingendo a Saint-Gemain e a Fontainebleau.
Fin dagli esordi della sua carriera artistica, Hopper è interessato alla composizione figurativa urbana e architettonica in cui inserire un unico personaggio, solo e distaccato psicologicamente, come se vivesse in una dimensione isolata. Inoltre il suo genio artistico gli ha permesso di costruire una tavolozza coloristica del tutto originale e riconoscibile, un uso della luce così originale come non succedeva dai tempi di Caravaggio. Lo studio degli impressionisti poi, e in particolare di Degas, (osservato e meditato durante il suo viaggio a Parigi nel 1910), gli infonde il gusto per la descrizione degli interni ed un uso dell’inquadratura di tipo fotografico.
L’estrema originalità di Hopper è facilmente verificabile se si pensa che il clima culturale europeo dell’epoca vedeva agitarsi sulla scena diverse tendenze certamente avanzate e rivoluzionare ma anche, talvolta, difettanti di un certo intellettualismo o di un forzato avanguardismo. Il ventaglio delle opzioni che un artista poteva abbracciare ai primi del novecento andavano dal cubismo al futurismo, dal fauvismo all’astrattismo. Hopper invece, predilige rivolgere il proprio sguardo al passato appena trascorso, recuperando la lezione di importanti maestri quali Manet o Pissarro, Sisley o Courbet, riletti però in chiave metropolitana e facendo emergere, nelle sue tematiche, le contraddizioni della vita urbana.
1913: partecipa all’Armory Show International Exhibition of Modern Art, inaugurata il 17 febbraio nell’armeria del 69° reggimento di fanteria di New York.
1918: sarà tra i primi membri del Whitney Studio Club, il più vitale centro per gli artisti indipendenti.
Tra il 1915 e il 1923 Hopper abbandona temporaneamente la pittura per dedicarsi all’incisione, eseguendo puntesecche e acqueforti, grazie alle quali otterrà numerosi premi e riconoscimenti, anche dalla National Academy.
1923-1924: Il successo ottenuto con una mostra di acquerelli e con un’altra di quadri contribuirà alla sua definizione di caposcuola dei realisti che dipingevano la “scena americana”.
1933: il Museum of Modern Art di New York gli dedica la prima retrospettiva.
1950: Il Whitney Museum gli dedica la seconda retrospettiva.
Primi anni cinquanta: Hopper parteciperà attivamente alla rivista “Reality”, fronte comune degli artisti legati alla figurazione e al realismo, che si contrapponevano all’Informale e alle nuove correnti astratte, venendo identificati erroneamente (nel clima della “guerra fredda” e della “caccia alle streghe” aperta da McCarthy) come simpatizzanti socialisti.
1967: muore nello studio newyorchese.

Charles Burchfield, nello scritto “Hopper. Il percorso di una poesia silenziosa” pubblicato su “Art News” del 1950 ha scritto: “I quadri di Hopper si possono considerare da molte angolature. C’è il suo modo modesto, discreto, quasi impersonale, di costruire la pittura; il suo uso di forme angolari o cubiche (non inventate, ma esistenti in natura); le sue composizioni semplici, apparentemente non studiate; la sua fuga da ogni artificio dinamico allo scopo di inscrivere l’opera in un rettangolo. Tuttavia ci sono anche altri elementi del suo lavoro che sembrano aver poco a che fare con la pittura pura, ma rivelano un contenuto spirituale. C’è, ad esempio, l’elemento del silenzio, che sembra pervadere tutti i suoi lavori più importanti, qualunque sia la loro tecnica. Questo silenzio o, come è stato detto efficacemente, questa “dimensione di ascolto”, è evidente nei quadri in cui compare l’uomo, ma anche in quelli in cui ci sono solo architetture. […] Conosciamo tutti le rovine di Pompei, dove furono ritrovate persone sorprese dalla tragedia, “fissate per sempre” in un’azione (un uomo fa il pane, due amanti si abbracciano, una donna allatta il bambino), raggiunte improvvisamente dalla morte in quella posizione. Analogamente, Hopper ha saputo cogliere un momento particolare, quasi il preciso secondo in cui il tempo si ferma, dando all’attimo un significato eterno, universale“.

Fausta Genziana Le Piane

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