enfants - Serena 
 Stefani 

E’ nata a Pitigliano (Grosseto) nel 1973. Ha studiato all’Università di Firenze Storia e critica del cinema che, insieme al teatro, alla poesia e alla politica resta la sua passione. Attualmente vive a Gand, in Belgio, dove insegna italiano e collabora con associazioni per la diffusione della cultura italiana.
Ha lavorato nell’editoria scolastica e ha pubblicato alcuni contributi sul cinema. Sue poesie sono apparse in riviste e antologie.
Sempre di tematica africana il suo primo di poesie (anch’esso bilingue italiano-francese):
Caverne/Cavernes pubblicato da Gazebo nel 2005.

Traduzione in francese
di Monique Baccelli

PANOPTICON
Collana di testi teatrali
EDIZIONI JOKER
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Situazione senza uscita
Il melodramma della solitudine

 

È difficile guardare in coscienza la gente e le cose dei Tropici per i colori che emanano. Sono in ebollizione, i colori e le cose.
Una scatoletta di sardine aperta in pieno mezzogiorno per la strada proietta tanti di quei riflessi che assume per gli occhi l’importanza di un avvenimento. Bisogna fare attenzione.
Non è che laggiù siano solo gli uomini isterici, ci si mettono anche le cose. La vita diventa possibile solo al calar della notte, ma ecco che l’oscurità vi è catturata dalle zanzare a sciami.
Non uno, due o cento, ma dei bilioni. Cavarsela in quelle condizioni diventa un’autentica opera di conservazione.
Carnevale di giorno, colabrodo di notte, una guerra in sordina.

LOUIS-FERDINAND CÉLINE, Viaggio al termine della notte

Il tempo del testo coincide con quello della sua Storia. La forma dell’opera coincide con la sua (apparente) lunghezza. I passaggi temporali non sono definiti e si prolungano nello spazio come nel suo infundibulo psico-caratteriale. Il sogno si sovrappone al reale e lo sovrascrive con la sua volontà di caratterizzare il destino che incombe. Dei luoghi si può dire tutto e nulla – di esso, volutamente per mano dell’autrice, non sappiamo né sapremo nulla. Nel primo atto di quest’opera teatrale, infatti, la scena è situata in un qualsiasi luogo dell’Africa contemporanea; l’ambiente iniziale è quello dell’attesa di una festa per celebrare un evento particolarmente importante e significativo (ciò che viene chiamato un po’ misteriosamente il Progetto e del quale non si saprà mai che cos’è effettivamente). Nel secondo e poi nel terzo atto si resta in luoghi molto simili a quello in cui si svolge il primo anche se alla fine ci si sposta nella casa di uno dei protagonisti, un décor che viene sintetizzato nella didascalia come una “casa di africani arricchiti”. Gli ambienti, quindi, sono assai simili a quelli che si potrebbero trovare in ambito europeo e i modi di vivere e le maniere di comportarsi dei personaggi africani non sono affatto diversi da quelli degli occidentali. L’Africa che viene mostrata, dunque, non è niente affatto diversa dall’Europa coloniale e perbenista quale era prima della svolta del secondo dopoguerra. Gli stessi personaggi ostentano un rigoroso aplomb (almeno in pubblico) e un lessico colto e disincantato. Le passioni covano e si manifestano sotto una patina di apparente capacità di dissimulazione. Eppure sono esse la sostanza della posta in gioco in quest’opera teatrale. I personaggi messi in evidenza dal dialogo lo dimostrano. Emanuelle Krus, una donna bianca che ha avuto una relazione “sanguinosa” (il termine viene evocato più volte) con Loums Eto’o, possente manipolatore di destini nel suo paese e marito apparentemente felice di una donna di una famiglia vicina al Dittatore onnipotente del luogo, ha anche un marito, Thomas, che le è morbosamente attaccato e disposto a tutto pur di non perderla. Anche perché da lei aspetta un figlio cui tiene in maniera altrettanto viscerale. L’assistente personale di Eto’o, Mehdi, è un idealista che aspira al progresso e alla dignità per un paese che non lo conosce e non lo ha mai conosciuto. Gli altri (un ambasciatore, due funzionari, le silhouettes che si intravvedono sulla e attraverso la scena) sono vacui e impalpabili come la realtà che rappresentano. Ma qui, in questo testo tagliente come una lama di rasoio e straziato come l’angoscia morale in un film del Bergman di mezzo, non c’è spazio per l’ironia e la satira. Il dolore è il diapason cui la narrazione delle passioni nascoste e conculcate continuamente ritorna per trovare ispirazione. Ma c’è un personaggio che sfugge a tutte queste dinamiche di amore e desiderio disperati: la Strega. La Sorcière, qui, non è certo un personaggio da addebitarsi a Michelet. È un essere sornione, senza età, senza dimensione sociale (e come potrebbe?), senza fini specifici chiari e convincente. Eppure finirà per essere il centro di un cerchio i cui confini non si possono spezzare e da cui nessuno dei personaggi riesce ad evadere. La Strega parla per enigmi, eppure quello che dice è abbastanza evidente:

Qui ancora c’è sangue, e siete venute a trovarmi… Ma il sangue non ha più potere, non vola sugli alberi. Questo è finito. Siamo solo quello che siamo, anche tu. (Silenzio) Le nostre conchiglie però sono diverse, come la forza che vieni a cercare.

La storia non può andare avanti, l’amore è finito, il sogno si è dileguato con l’avvento del mattino del Potere. Il Progetto come pretesto non può più bastare come non può più bastare l’amore.
Sembra di essere all’interno della prima opera letteraria di Louis- Ferdinand Céline, La Chiesa, il cui incipit è anch’esso collocato in Africa e dove si descrive il sogno (mistificato e mistificante) della salvezza dei popoli coloniali ad opera dell’attività terapeutica e moralizzatrice della Società delle Nazioni (il testo céliniano è ambientato nel 1926, in piena stagione colonialistica).
Ma c’è una differenza: Céline è un critico sarcastico e feroce dei vizi e delle volgarità dell’uomo bianco, certo, ma non conosce né crede allo spazio per la sua nemesi ad opera degli uomini di colore. Nonostante il taglio drammatico, la sua resta pur sempre una tragicommedia. Non così Enfants d’Afrique. Potrebbe sembrare apparentata a prima vista a opere come Combat de nègre et de chiens oppure Dans la solitude des champs de coton di Bernard-Marie Koltès con i quali sembra condividere l’ambientazione e certe tematiche. Ma in Koltès l’esasperazione dei temi (la solitudine, la morte, l’amarezza del vivere, il deserto come condizione quotidiana) si rovesciano in un’esasperazione verbale e plastica che in questo testo della Stefani prendono altre vie – più mosse, più morbide, meno taglienti e più drammaticamente avvolgenti. Koltès prende di petto le contraddizioni esistenziali; Serena Stefani le accetta e le metabolizza trasformandole in un linguaggio che è apparentemente piano e impoetico (anche se, in realtà, lo è in maniera assai più sotterranea ma altrettanto efficace). Ma che cos’è, allora, quest’opera teatrale così nitida, di un rigore quasi classico, fatto dell’impasto terribile e apparentemente attonito che si crea a partire dal vagheggiamento della morte e da un grido di dolore silenzioso e contratto?
Questo lavoro teatrale di Serena Stefani può essere considerato un melodramma? Io credo proprio di sì ma con l’avvertenza che si tratta di una variante inedita (ed inconsueta) di esso. Un melodramma senza dramma o, meglio, un melodramma attenuato dalla sua capacità di comunicare oltre alla passione anche il suo rovescio: l’indifferenza, l’arrivismo, la mancanza totale di idealità umane. I personaggi di quest’opera agiscono come se il melodramma dovesse deflagrare da un momento all’altro e trasformarsi in tragedia ma questo non succede affatto. L’epilogo mostra una metamorfosi, non una catastrofe (come, di solito, avviene in un “vero” melodramma).
Ancora emerge il personaggio della Sorcière, ancora viene mostrata la sua capacità di fagocitare l’attenzione e lo sguardo di chi le si contrappone sulla scena per costringerla a rivelarsi, a rendere pubbliche e coerenti le sue mosse:

Poco dopo la fine del Terzo Atto, il sipario si apre a metà scoprendo una scena scura, illuminata solo da un occhio di bue. In questo spazio Emmanuelle, seduta per terra, vestita da strega, smuove sassolini e conchiglie davanti a sé. Accanto ha una bottiglia con del liquido rosso, opaco. La moglie di Loums entra timidamente dal proscenio e si affaccia dentro lo spazio. Emmanuelle le fa cenno di avanzare. La moglie di Loums si siede per terra davanti a Emmanuelle.

EMMANUELLE – Dimmi tutto.
MOGLIE DI LOUMS – (con la voce che trema) Signora, sono qui
per un filtro… per mio marito…
EMMANUELLE – Come si chiama tuo marito?
MOGLIE DI LOUMS – Si chiama Loums… Loums Eto’o.
Buio.

La metamorfosi di Emmanuelle, la colta e raffinata donna bianca che ha superato tutti suoi possibili pregiudizi razziali in nome dei suoi sentimenti e della passione amorosa per un uomo di colore che, nonostante questo, non l‘ha più voluta dopo il breve interludio in terra europea, in Strega africana convinta del ruolo che interpreta e ormai avviata verso il compimento del suo destino, è definitivamente compiuta. L’Africa impone i propri diritti ancestrali e i suoi “figli” non possono che trasformarsi nei devoti interpreti della sua tradizione millenaria. In quello spazio bianco che il mondo diventa per chi si fa travolgere dalla forza delle proprie passioni senza possibile scampo, l’unica via per uscire dalla situazione in cui si è sprofondati invano è il sogno o il ritorno al passato.

Giuseppe Panella

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