di Alina Rizzi
Single, con marito e figlio.
Una contraddizione in termini?
Quasi un ossimoro?
Può darsi. Eppure è così che io mi sento.
Un po’, forse, perché rifuggo da ogni tipo di etichetta e incasellamento, un po’ perché è un dato di fatto: sono sposata da diciassette anni e ho un figlio di quattro. Il fatto curioso è che l’essere single è anche la prima impressione che ricevono di me le persone che mi incontrano la prima volta. Evidentemente non mi ci vedono proprio nei panni di una moglie e hanno ragione. Lavoro, viaggio, incontro molte persone, non cucino, delego le pulizie domestiche, lo stiraggio e ho acquistato una asciugatrice per evitare la noia di stendere i panni appena lavati, nonostante abbia un giardino. Non invito neppure gente a cena, se è possibile, perché poi detesto le pentole da lavare, e tutte le femmine sanno che certi utensili da cucina, purtroppo, non entrano nella lavastoviglie.
Mio marito cosa dice?
Niente, che può dire? Non sono mai stata diversa. Mi sono sposata perché sembrava importante per i nostri genitori e li ho accontentati, dal momento che a me non fregava niente di tutta la faccenda.
Quando parto lui non chiede i particolari del viaggio, a meno che io non voglia raccontarglieli. Sa che non sopporto di essere sorvegliata. Quello che non dico, evidentemente, voglio tenerlo per me.
A volte mi sente discutere in pubblico, con amici o durante la presentazione di uno dei miei libri, di uomini e rapporti di coppia, con esempi molto particolareggiati. E’ ovvio che, occupandomi di scrittura femminile, conosca la materia perché mi “documento”, ma anche fosse una documentazione sul campo, lui non interferisce. Si tratta del mio lavoro, dei miei studi, di quella parte della mia vita che è mia e non sono disposta a condividere.
Si pensa, solitamente, che sposarsi, fare coppia fissa, significhi una specie di immolazione all’altro, che comunque preveda dedizione e pochi spazi singoli: perché questa brutta abitudine, mi chiedo?
Io mi sento innanzi tutto un individuo, che ha delle cose da fare, un suo progetto esistenziale, degli obiettivi da raggiungere. Dovrebbero coincidere per forza con quelli di mio marito? No, a mio parere. La mia vita riguarda me, innanzi tutto. Essere sposata è un particolare. Non credo mi piacerebbe vivere sola, trovare le luci spente la sera, cenare in silenzio davanti alla TV, andare in vacanza ogni volta con l’amico rimediato all’ultimo minuto. Mi piace uno spazio di condivisone, purché non interferisca con i miei programmi.
Certo con mio figlio il discorso cambia. Ad un bambino non puoi dire: vado, cavatela da solo.
Forse a quindici anni, ma ora ne ha solo quattro. Io comunque cerco di fare ciò che voglio ugualmente, organizzandomi con molta precisione. Ecco, l’organizzazione è fondamentale se si vuole vivere da single, avere un marito e un figlio. Ve lo dice una che, fino ai trentatré anni, non voleva saperne di bambini, ne propri né altrui. Poi, i fatti della vita…
Mi sono trovata a dover scegliere tra un sì e un no, per motivi di salute, e allora ho scelto che non volevo rinunciare a quella che – oggi – considero forse la più grande avventura immaginabile per un essere umano: quella di metterne al mondo un altro.
Ovviamente ciò non significa che mi sono trasformata all’istante in una madre modello.
Ho patito le pene dell’inferno per ben due anni. La mia libertà è svanita, il bimbo succhiava forze, energie, salute, idee, possibilità. E io, che non so arrendermi ai ruoli, non ho ceduto un istante (a torto, ora lo so, sarebbe stato sufficiente considerarla una pausa). Ho lottato con le unghie e coi denti per occuparmene da sola (eh sì, perché la maggior parte degli uomini si defilano in questi frangenti, diciamocelo una volta per tutte: dormono in altre stanze e vanno “a lavorare”, loro, poveri tapini. Le donne restano inchiodate ad un esserino urlante 24 ore su 24 e si rilassano, come no. Ma sorvoliamo, tutto questo pretenderebbe un discorso a parte.)
Dunque non ho rinunciato a lavorare, alle mostre, al teatro, alle vacanze all’estero, agli incontri fuori casa. Ma non dormivo mai e piangevo sempre. Sempre. Sono arrivata ad un limite estremo, a cui nessuna donna dovrebbe giungere sola, ma l’ho oltrepassato con l’aiuto di una persona qualificata e di mia madre, e quando mio figlio ha avuto tre anni, e l’ho finalmente iscritto alla scuola materna, è iniziata la lenta risalita.
Tre anni, però, badate bene: tre anni come chiusa in una cella di isolamento. A cercare aria attraverso spiragli fatti di brevi fughe tra un allattamento e l’altro prima, e tra la disponibilità o meno di mia madre, dopo.
Pentimenti? Figuriamoci! Io non mi pento mai di niente, è talmente inutile!
Ho pagato per aver voluto molto, e ho pagato caro, ma ora ho un figlio meraviglioso, il mio lavoro, i viaggi, le amicizie, gli incontri, lo studio e persino l’amore!
Chi diavolo l’ha detto che non si può avere tutto? A volte è sufficiente stabilire con cura le priorità, e avere il coraggio di scelte “alternative”, tra le quali, di tanto in tanto, lasciar cadere fiori in mare per ingraziarsi gli dei benigni.
N. B. Mi hanno chiesto questo pezzo quando mio figlio aveva 4 anni e ora ne ha 6. Credo non sia mai stata pubblicato perchè la rivista non è mai uscita. Ma oggi è il giorno dei recuperi e vi propongo l’articolo, che forse non corrisponde più al mio odierno sentire. Del resto, un articolo NON E’ una poesia (che non scade come il latte). Se avete voglia di scrivermi sull’argomento usate la mia mail e parliamone. Io rispondo sempre.)
Alina Rizzi
alinarizzi@virgilio.it
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