di Raffaele Crovi
Nella prefazione al volume “Storie” di Raffaele Crovi edito da Passigli (pagg. 348, € 18), Milvia Maria Cappellini avverte il lettore che, secondo l’autore, la letteratura “è spazio nel quale circolano, si intrecciano e si alimentano energie“, delle quali è preferibile comunque indicare i valori positivi anziché negativi. Portare tale asserzione alle conseguenze ultime, secondo noi, significherebbe che segnalare una cosa come esistente è già un apprezzamento positivo perché senza dubbio qualcosa che è è meglio di qualcosa che non è. Il volume di Crovi si divide in tre sezioni: “Ritratti di scrittori con ritratto di editore”, “Storia e storie”, “Scienza con variazioni”. Si tratta d’una raccolta di brani giornalistici pubblicati da Crovi su testate e riviste varie in un arco di tempo molto ampio, dal 1950 al 2004. La prefatrice, riteniamo, avrebbe dovuto sin dall’inizio impostare diversamente; come sono definibili, cioè, gli “interventi” di Crovi in ognuno di quei tre settori? Notizie, segnalazioni, medaglioni? Referenti, questi, specialmente l’ultimo, che appaiono assai riduttivi, e comunque in contrasto forte con l’assunto dell’opera che si condensa nell’iterata scelta del termine “storia” di cui ai titoli. Diciamo allora che i testi di Crovi, benché le più volte essenziali, facili e scorrevoli alla lettura, spesso raggiungono un livello qualitativo di rango, quello di “recensioni in forma di brevi saggi”. Questo perché Crovi ha il pregio, specialmente là dove le questioni presentate descrivano gli esiti d’un dibattito dall’autore molto sentito, di coniugare la serietà dell’indagine, lo spessore del tema, significativo d’un particolare orientamento culturale, con la piacevolezza dell’espressione. Ciò premesso, possiamo anche consentire con altre affermazioni della curatrice Cappellini; abbiamo solo voluto precisare che le “segnalazioni” di Crovi non sono da ritenere positive solo per il fatto che esistono, o sono state concepite. Non sarebbe buon giornalismo, questo: nominare un autore o un’opera intorno a cui si sospenda ogni giudizio, estetico o etico, equivarrebbe già di per sé a promuoverne l’immagine. Quanto a Crovi dunque, apprendiamo, che si è nutrito di parola sin da giovane, e che per lui tutto è intelligibile e dicibile, tutto diventa conoscenza del mondo, anche la sensazione materiale. Egli non crede alla nevrosi pirandelliana, per cui la vita o si vive o si scrive, non c’è frattura fra l’una e l’altra fase. Eppure, avverte ancora la prefatrice, Crovi ammette che la parola sia veicolo di menzogna; è compito dell’autore (narratore o critico) smascherare l’abuso e ripristinare l’accordo fra vita e parola. Come filerebbe tutto liscio, in questa sorta di patto di cooperazione! La realtà però è talmente complessa che aborre ogni schematizzazione; secondo Talleyrand, la parola è stata data all’uomo affinché con essa egli nasconda il suo pensiero; e veramente ciò che separa il bene dal male, come diceva uno che di queste cose s’intendeva, il Manzoni, è materia talmente sottile e sfuggente, che andrebbe esaminata volta per volta con acutissima introspezione, dote piuttosto rara. Il riferimento ci fa intendere che ogni scrittore il quale voglia uscire “dalla volgare schiera” deve avere una sua visione etica del mondo, pena quella di essere uno scrittore di comodo, esemplare non certo raro, né ai tempi nostri né mai. Ma proprio riguardo al Manzoni vogliamo rilevare il bello e documentato studio che Crovi dedica al grande romanziere, soprattutto per il modo in cui guida il lettore a scorgere il modello umano d’un personaggio contestato come Lucia dei “Promessi Sposi” nella moglie stessa di don Alessandro, la famosa Enrichetta Blondel, grazie forse al cui continuo sacrificio di sposa e di madre era stato possibile non solo concepire la figura psicologica di Lucia, ma portare a compimento il romanzo. Crovi riesce a dire cose originali e coinvolgenti anche di altri autori, come Buzzati, ad esempio, o Gadda, o Ada Negri, ciascuno colto abbastanza bene nel suo rapporto di dare-avere col suo momento storico culturale. E a tal proposito la Cappellini ritiene di non poter andare avanti senza averci prima avvertito che l’esperienza, per Crovi, è “relazione”; a noi infatti era venuto talvolta il sospetto che anche l’eremita, per fare esperienza di quanto fosse scabra la sua grotta, dovesse entrare in relazione con essa sbattendoci la testa… Ci si consenta l’ironia, ma nulla vieta, pensiamo, che dovendo dare un giudizio sia pure conciso su uno scrittore ci si pronunci, “en passant”, anche su eventuali curatrici prodighe di “loci communes”, lasciando ovviamente ben suddivisi gli ambiti di valutazione.
Parole chiave che aiutano a seguire meglio l’approccio di Crovi ai suoi autori secondo certi criteri interpretativi sono poi per la Cappellini: “conversevole” e “illuministico”. Accettiamo, in linea di massima, ma su tre autori in particolare abbiamo qualcosa da osservare, pur ribadendo l’efficacia d’insieme delle analisi. Di Kipling Crovi sottolinea che per lui il narratore inglese fu lettura come strumento per capire il mondo. Sarebbe stato opportuno aggiungere che invece Kipling considerò la scrittura strumento per far capire il mondo in un certo modo, fatti salvi i suoi pregi d’artista. Di Tolstoi Crovi dice che “rende chiare e visibili tutte le cose, lasciando intatta la radiazione del mistero”. Ora nessuno dubita più che se Tolstoi fu un narratore-artista gigantesco, come opinionista e pensatore non lasciò purtroppo nulla di chiaro, e fu di una inconcepibile incoerenza. Vogliamo accennare infine a Cibotto, che forse sfigura un po’ dopo i due precedenti, pur essendo scrittore serio e dignitoso. Crovi giustamente ne elogia i volumi di racconti, ma ignora (quando scrisse il pezzo, nel 1984, non poteva ancora conoscerlo, ma forse avrebbe potuto già averne notizia) un volume che noi consideriamo un vero gioiello, “Veneto segreto”, che è del 1987, in cui Cibotto svolge con toni di composta nostalgia la tematica secondo cui la civiltà industriale ha distrutto la bellezza e spontaneità della civiltà patriarcale. Vogliamo dire poi che condividiamo in tutto le espressioni di elogio che Crovi (definito dalla Cappellini un cristiano illuministico o umanistico) rivolge a un’esemplare figura di letterato e critico come il cattolico Carlo Bo, in cui la parola chiave è coscienza, che nello scrittore ligure è ansia di verità, esercizio d’interiore trasformazione morale.
Nella terza sezione del volume di Crovi, “Scienza con variazioni” ci sono parsi degni d’attenzione soprattutto due testi, quello su Hawking e Prigogine, a proposito del concetto di tempo, e quello dedicato a Geymonat e al suo volume sulla libertà, entrambi del 1988. Nel primo, riportando il pensiero dei due celebri scienziati, Crovi ci ricorda che l’evoluzione, biologica e sociale, è la “storia del tempo”. Connessi inscindibilmente a tale argomento però ci sono parsi due quesiti, che Crovi proprio non si pone: il tempo ha un senso se non riferito all’uomo? E ancora: la materia di per sé progredisce, o è l’uomo l’unico artefice di quel mutamento che si chiama progresso? E quanto al libro di Geymonat “Il potere e la libertà”, il filosofo imposta la sua concezione su un presupposto: la libertà è conflittualità permanente, consistente in pratica nell’abbattere sempre l’ordine vigente. Crovi prova a suggerire: e se la libertà fosse il frutto della pacificazione, che richiede l’attuazione della giustizia e del diritto? Noi abbiamo riflettuto. L’autore, cristianamente parlando, dovrebbe dire che la vera libertà è sì lotta, ma lotta al male, solo che, qual è il vero male? La libertà, diceva Montesquieu, è tutto ciò che un cittadino può fare nel rispetto delle leggi. Già, ma chi le fa, le leggi? Quanto più le leggi, diciamo noi, si avvicinano a proteggere i diritti dei più deboli, tanta più libertà e progresso si avrà per tutti.
Ah, raccomandiamo in ultimo a Crovi di essere più scrupoloso nel trascrivere le date di nascita e di morte dei suoi personaggi, altrimenti, come nei casi di Stevenson (1850 – 1984) e di Ada Negri (1839 – 1945) possono uscir fuori, come ognun vede, delle cose piuttosto amene.
Claudio Angelini
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