(Avvertite in due poeti romantici, Keats e Shelley, con menzione di Wordsworth)
di Claudio Angelini
John Keats (1795-1821), poeta romantico delicato e sopraffino, creatore di miniature letterarie indimenticabili sotto il profilo stilistico e sentimentale, a me tanto caro, pure, direi che paga il suo debito qua e là (d’altronde è morto così giovane!) alle incongruenze della sua lingua e della sua cultura. Allorché io, ragazzo ventiseienne come lui quando morì, cominciavo ad appassionarmi ai grandi romantici inglesi (ritenuti più di tutti i loro contemporanei europei la vera essenza del romanticismo), e sentivo forte il desiderio di tradurli, restavo però già da allora perplesso di fronte ad alcune particolarità formali. Prendiamo la celeberrima “Ode su un’urna greca“. Keats ammira i fregi del Partenone, abbagliato dalla bellezza, compostezza e armonia dell’arte classica. Rievoca le scene istoriate su quei marmi in delle strofe stupende, dove tutta la sensibilità contemplativa dell’epoca in cui egli era maturato e la plastica espressività nonché eleganza dell’arte greca si fondono mirabilmente. Ho detto mirabilmente? Ma che ci ha a che fare con un’estetica che è tutta equilibrio, serenità, lucidità quell’espressione così poco acconcia all’insieme che il poeta usa concludendo la prima strofa, “wild ecstasy“? E’ a questo che egli sente sollecitata la sua fantasia, osservando quelle scene, quelle raffigurazioni? A un’estasi selvaggia? Di movimenti, di sensi, d’istinti? Tale modo di dire a me sembra più indicato a evocare il ritmo sfrenato di qualche danza tribale di popolazioni africane, o asiatiche, o comunque primitive. “Wild ecstasy“. Sarebbe venuto in mente a un poeta francese, tedesco, o italiano, meglio educato al valore delle parole e alla sostanza delle civiltà da cui provengono, di definire così quelle immagini scultorie, e il messaggio ch’esse contengono, testimonianza d’un’epoca e d’una concezione artistica e spirituale altissima, irripetibile? Vero è che Keats, amante del classicismo, ebbe però di tale categoria estetica una percezione approssimata, in cui confluisce anche la sua tendenza all’esotico e al decorativo.
Ma tornando a “wild”, ed escludendone per un momento l’”ecstasy”, si tratta d’un aggettivo di cui gli inglesi fanno indubbiamente largo uso. Keats lo usa ancora, non so quanto opportunamente, nella “Belle dame sans-merci“, ritenendo che gran parte del fascino dell’enigmatica dama rappresentata in quella lirica risieda nel suo sguardo, mica dolce, mica languido o sensuale, percorso semmai da qualche selvatico sprazzo, ma “wild”, selvaggio esclusivamente. E William Wordsworth (1770-1850) prima di lui aveva fatto dell’ aggettivo analogo sfoggio quando esso, ad esempio, ricorre nei “Versi scritti presso l’Abbazia Tintern“. Parlando infatti della sorella, sua compagna di giochi infantili, il Wordsworth non sa tenersi dal rammentarne gli “occhi selvaggi“ (wild). Cotesta selvaticità a quanto pare che emana dagli occhi delle loro “dame” dev’essere irresistibile per i poeti e forse per gli uomini inglesi in generale; un dato culturale mai sufficientemente indagato. E noi, che dal Petrarca in poi, ci siamo fatti incantare dal “chiaro lume“ che arde negli occhi femminili!
Certo, spesso le sfumature semantiche del qualificativo inglese possono differire da quelle del nostro “selvaggio”, potendosi “wild” a volte rendere con “fiero”, “indomito”, “forte”, ecc.
E tuttavia quel “wild ecstasy“ a proposito d’un tratto di scultura e d’arte ellenica, non potrà mai parermi appropriato; il poeta avrebbe potuto rendere il senso dinamico, eppure leggiadro, dell’insieme usando espressioni come, che so, “slancio appassionato“, “fervido impulso“, no! Estasi selvaggia! Mi si perdoni, ma è proprio segno che, nonostante secoli di civilizzazione, qualcosa di selvaggio questi anglosassoni se lo porteranno dentro per sempre.
Ed ora, diciamo qualcosa di Percy Bysshe Shelley (1792-1822), l’altro grande poeta romantico dell’Ottocento inglese.
Keats è più raffinato, più ornato nella descrizione di stati d’animo particolari che si risolvono nella natura, in aspetti suggestivi, intimi del paesaggio. Shelley è quasi sempre più vago, più esuberante nel linguaggio, di sentimento più ampio, più ricco, più profondo, solo spesso dispersivo. Si dice che la lingua inglese, poeticamente, sia privilegiata, potendo scegliere l’espressione latina per conferire dignità e dolcezza al discorso, e l’espressione sassone per dare ad esso forza e concisione. Grande illusione, prima di tutto perché l’espressione latina, per unanime consenso, possedeva (e continua a possedere principalmente nella lingua italiana, che di quella latina è l’erede diretta) in misura eccezionale, unica, entrambe quelle facoltà rappresentative. E poi, sia consentito dirlo, una lingua dignitosa all’origine, è come se esaltasse, nelle sue manifestazioni, tutto ciò che tocca, senza bisogno di dicotomie; una lingua che non sia sorta dallo spirito schietto, naturale d’un popolo, farà sempre fatica a trovare la terminologia più adatta a significare ogni sfumatura possibile dell’animo umano. E secondo me proprio la poesia, più che la prosa inglese, risente del fatto che tale lingua è nata e s’è sviluppata in maniera non naturale. Cioè molta di essa (primo esempio di lingua artificiale europea) è sorta a tavolino, e da lì è stata imposta, senza evoluzione spontanea, dai dotti del Quattrocento, che hanno attinto soprattutto dal latino. Questione famosa, su cui ora non intendo soffermarmi. Ma i termini latini, con la pletora spesso dei loro orridi derivati, hanno avuto, per tali presupposti, non molto più che funzione “esornativa”, pertanto fredda, riferendo un modo di sentire non appartenente all’anima più genuinamente popolare. Nelle altre culture europee, invece, l’espressione poetica scaturiva dalla lingua comune, di cui non costituiva una antitetica alternativa, ma una sorta di “elevazione di grado”. L’inglese ha avuto sempre, secondo me, quasi un’incapacità congenita a elaborare, concepire, identificare un linguaggio poetico autentico, semplice, naturale, figlio di quello nazionale ma da esso distinto, diciamo così, per meriti speciali. Veniamo a un esempio probante, nella poesia di Shelley, che da tanto tempo mi porto in mente. Nella famosa “Ode al vento di ponente“, Shelley chiama quel vento, fra tanti altri modi, anche “uncontrollable”. Mamma mia! Pur con le migliori intenzioni da parte dell’autore, questa è prova a carico degli inglesi di non saper individuare, in poesia, il registro lessicale più idoneo! Chi mai potrebbe dichiarare poetica quella parola sconciamente burocratica, per giunta ancora non registrata, all’epoca, nel vocabolario della lingua francese, da cui proviene, in quella forma negativa? Ma l’inglese, si sa, è una lingua ricca, perché ruba parole alle altre lingue da cui ricava poi tanti di quei derivati che la lingua produttrice del termine originale non è in grado, cosa paradossale, di ritradurre, di reimpiantare in sé stessa!
“Uncontrollable“, deliziosa parola, che olezza di registri contabili, di scartoffie bisunte, di scansie polverose in uffici comunali popolati da impiegati ignavi, sonnacchiosi, immersi in un’atmosfera stagnante che è quanto di meno atto a ricordare la furia vigorosa, indomita, sconfinata di quel vento!
Usata in poesia italiana, ma anche francese, dal Settecento in poi, quella parola avrebbe provocato enormi scandali e polemiche a non finire. Ecco dunque un altro elemento a suffragio di quanto si afferma sopra; la lingua inglese è nata in una sorta di calderone pieno di brodaglia rimestata a fatica, in cui sono confluiti brandelli e cascami delle altre lingue, scaraventati dentro a casaccio! Shelley, grande poeta, per fortuna va oltre i limiti del consentito dalla sua lingua; anzi, egli è noto per andare al di là di ogni limite, proprio come il suo “west wind”. Ma quell’“uncontrollable”! Eppure, ci credereste? in alcune traduzioni italiane odierne, anche molto accreditate, della celebre ode, m’è capitato di leggere “incontrollabile”. Che dire? Ognuno ha il linguaggio che si merita.
07 settembre 2005
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