di Franco Ferrarotti
I RISULTATI dellindagine Istat su occupazione e titoli di studio sono, almeno in parte, sorprendenti e meritano attenta riflessione. Ancora recentemente si era soliti sputare, per così dire, sul pezzo di carta, vale a dire sulla laurea, ritenuta inutile perdita di tempo e di denaro, fatica non compensata da un rapido, redditizio approdo nel mercato del lavoro. I dati dellIstat ci dicono invece che, oggi forse più di ieri, studiare è utile, che la laurea non è un pezzo di carta straccia, che un titolo di studio apre più facilmente possibilità di lavoro relativamente soddisfacente.
I dati dicono anche di più. Sono linattesa rivendicazione del valore della laurea breve. Diplomi e lauree brevi erano stati accolti a suo tempo con una buona dose di scetticismo fra i professori cattedratici più autorevoli, quelli che allepoca della contestazione del 68 venivano con scarso rispetto chiamati baroni. Si temeva, anche con qualche buona ragione, uno svilimento del titolo di studio finale, cioè della laurea, che nellordinamento universitario italiano costituiva pur sempre lunico momento in cui lo studente poteva dar prova della sua originalità e si impegnava nella elaborazione di un suo scritto personale. Si temeva, in altre parole, che con la laurea breve e i diplomi luniversità dovesse fatalmente perdere lo spirito critico su cui era storicamente cresciuta e che con i nuovi moduli di insegnamento finisse per diventare luniversità del Bignami, destinata a fornire solo uninfarinatura di informazioni acritiche a studenti incapaci di approfondire non importa quale problema.
Timori largamente infondati. Lindagine Istat non ci risparmia verità amare: in Italia la disoccupazione giovanile tocca ancora il 26,7% mentre in altri Paesi, paragonabili allItalia, come la Francia o la Germania, la percentuale è meno che dimezzata. E probabile che in Italia stiamo duramente pagando il basso livello degli investimenti nella scuola così come, con riguardo alla produzione industriale, stiamo amaramente scontando la miope politica che si illude di risparmiare tagliando i fondi alla ricerca scientifica.
Che poi trovino lavoro soprattutto i giovani diplomati in certe materie ad alto contenuto professionale, come ingegneria, e non invece in altre materie più generosamente aperte sui problemi della società, come scienze della formazione, non dovrebbe stupire più di tanto. Ai livelli bassi e intermedi dallapparato produttivo, è chiaro che avranno sempre la preminenza studi che portano a preparazioni specifiche prontamente utilizzabili. Ma ai livelli medio-alti e alti, là dove è necessaria la visione critica della globalità del processo produttivo, si afferma la necessità di una preparazione culturale in grado di offrire la possibilità di valutazioni razionali globali. Non dovrebbe, da questo punto di vista, stupire eccessivamente che in paesi tecnicamente molto progrediti abbia preso piede ormai la tendenza ad impiegare, per esempio nelle direzioni del personale, non più esperti in diritto del lavoro o periti industriali, bensì addirittura filosofi ed esperti in psicologia di gruppo. Forse con eccessiva ingenuità si è dato ascolto a chi prometteva, preconizzando una società post-industriale, una sorta di Eden in cui il lavoro non sarebbe stato più necessario o lo sviluppo avrebbe potuto aver luogo senza mansioni nelle aziende produttive. Visioni generose, ma favole, di scarso conforto per giovani traditi da un insegnamento insufficiente, spesso analfabeti di ritorno, alla caccia di un posto di lavoro introvabile. Lindagine Istat fa sommaria giustizia di certi utopismi ridicoli: lo studio è più che mai necessario per ottenere un lavoro adeguato, che si spera non precario, ossia a tempo indeterminato.
La società industriale in cui viviamo è per definizione una società in sviluppo, dinamica; non può sopravvivere se non espandendosi e sviluppandosi, ma ciò postula, in primo luogo, più ancora che capitali, una riserva di cultura, vale a dire una manodopera e dei quadri dirigenti mentalmente articolati, duttili, capaci di operare i riadattamenti socio-psicologici resi necessari dallabbandono dei metodi produttivi e distributivi tradizionali. Listruzione, la cultura in questo tipo di società non sono più un lusso. Sono una necessità strettamente funzionale. Senza di esse, il meccanismo sociale si blocca o funziona al livello della mera sussistenza. Investire nella scuola e nella cultura significa, per questa società, garantirsi (dal Messaggero di sabato 5 luglio 2003)
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