Nota del traduttore Claudio Angelini

Nella civiltà occidentale di prima metà dell’Ottocento, concluso il secolo dei lumi, dopo che l’auspicato avvento della scienza non era riuscito a spiegare tanti aspetti oscuri della realtà, il timore vago di comuni pericoli (guerre, pestilenze, carestie, cataclismi) tornava a influire molto su quello che un secolo e mezzo dopo Jung avrebbe chiamato l’inconscio collettivo. Anche per effetto delle teorie romantiche che dalla Germania si andavano diffondendo in Europa e in America, molti scrittori e artisti, o per desiderio d’orginalità o per esprimere le loro travagliate esperienze, scelsero nelle proprie opere di affrontare temi improntati al senso del mistero. La moda del romanzo gotico era del resto ancora tenace, e sebbene costituisse una reazione decisa al nazionalismo illuministico e ai suoi pincipi repubblicani, non si può dire che offrisse, in genere, dei personaggi aristocratici rappresentati, immagini edificanti o lusinghiere. Qui comunque vogliamo dar rilievo al fatto che in molti scrittori dell‘Ottocento il ‘‘mistero” tende a esser considerato un aspetto della vita, quasi un proseguimento delle vicende quotidiane di tutte le classi sociali, da cui comunemente si rifugge di parlare, ma che esiste. Lo statunitense Edgar Allan Poe, che il francese Baudelaire dichiarava essere suo fratello spirituale, coi suoi racconti del terrore, e con le sue poesie, di cui presentiamo qui la più famosa, Il Corvo, fu uno di questi scrittori, creatore d’un genere destinato nelle età successive ad enorme successo. Per quanto attiene al secolo XX da poco concluso, e a quello che stiamo ora vivendo, il discorso da fare da un punto dì vista socioculturale, è molto diverso. Il progresso scientifico ha affrancato classi sociali e concesso maggiori opportunità all’individuo singolo, e ha comunicato più largo senso di sicurezza (spesso falsa) nelle possibilità dell‘uomo. L’inconscio collettivo si è lentamente modificato e oggi, nelle società avanzate, chi gode di grande o relativa agiatezza, cioè la maggior parte della gente, vede e interpreta tutte le cose col parametro dell’edonismo, salvo poi a sentirsi privo di difese se toccato dal male nelle sue varie forme. Il mistero, e l’inesorabile fugacità della realtà temporale che ne e causa prima non vengono più riguardati come aspetti della vita, séguito di situazioni (apparentemente) normali. Vengono invece ritenuti spiacevoli incidenti di percorso, che è possibile magari rimuovere, o se non si può, trasformare almeno in mezzi d’evasione fantastica, posti dalla tecnologia (con film e supporti vari) a disposizione di gente che con facilità s’annoia, e va avidamente alla ricerca di emozioni e sensazioni forti.
Il corvo descritto da Poe non è che il segno d’un destino imperscrutabile che assumendo spesso le figurazioni più insolite incombe su di noi: il protagonista del poemetto, che al bizzarro uccello s’intitola, è una delle sue vittime. Egli ha un po’ le caratteristiche del nobile decaduto, amante dell’arte e isolato in un suo fosco ritiro, che cerca invano di dimenticare la donna amata, scomparsa prematuramente e ora angelo tra gli angeli del cielo. Ma la fatalità non gli assegna scampo: come tutto fa presumere, verrà portato prima alia pazzia poi alla morte. Il riferimento al paradiso, alla felicità ultraterrena, non deve trarre in inganno; è un modo letterario adottato dal poeta per conferire risalto patetico al personaggio, ma privo in realtà d’implicazioni metafisiche e spirituali. L’uomo può così immaginarsi ancora bella e radiosa la donna amata, ma dal contesto s’avverte (la chiarezza concettuale come sostanza di poesia non s’addice molto al Poe) che Leonora è figura psicologicamente indefinita, evanescente e inattingibile. La religione cristiana offre ben altra interpretazione e signiticato della vita umana, del dolore e di ciò che la ragione non arriva a comprendere.
Parliamo piuttosto di come alcune singole civiltà letteraie (nella fattispecie quella sassone e quella latina) possano percepire e veicolare, nelle rispettive lingue, il fascino del mistero. A questo c’induce il discorso premesso da Mario Praz (nostro venerato, maestro) alla sua traduzione de Il Corvo, in cui enuncia personali criteri estetici, alcuni dei quali ci sembrano ancora degni di rispetto, altri superati. Ricordando un attimo come vengano “sentite” certe cose nella nostra epoca, volentieri ammettiamo che il progresso può suscitare in animi sensibili delle sane curiosità, spingendo a indagare con mezzi nuovi su moduli espressivi peculiari di taluni artisti, e consentendone più fecondi approfondimenti. Bisognerebbe allora saper trarre i possibili benefici dal progresso tecnico, e mai concedere che si configuri il fenomeno per cui è il costume a formare gli uomini di pensiero, e non viceversa. Lo spiccato individualismo, tipico dell’Ottocento, mal si adatterebbe agli schemi del cosiddetto politically correct odiemo.
Al lume di queste considerazioni fa meraviglia che il “senso del mistero” sia nato nei paesi del nord, tenendone presenti aspetti del paesaggio, usi e tratti caratteriali degli abitanti? E nelle lingue, in particolare l’inglese, il cui nucleo primitive si fondava quasi esclusivamente sull’imitazione dei suoni di natura, si concentrava davvero lo spirito e la mentalità di chi ne fa uso? Secondo quale modello di giudizio, dato che non ne esiste uno valido per tutte le parlate umane? Come si può affermare che l’espressione d’una lingua sia evocativa di realtà naturali e soprannaturali più di quella d’un’altra? Il Praz ad esempio pervicacemente sostiene che intraducibile è il nevermore del corvo, quasi leitmotiv del poemetto, e nella sua versione, pur di mantenerne un eco, fa ricorso a un compromesso: “mai più, ora”. Artificioso, secondo noi, perché se si crede, come lui, che l’italiano “mai più’’ sia una stonatura rispetto all’originale, quell’”ora” messo in fondo non migliora nè suggerisce niente. Se invece s’attribuisce al “mai più” in posizione analoga un’alta pregnanza semantica, intonatissima al contesto generale, si può provare, come abbiamo fatto noi, a lasciare un’impronta della parola inglese (“ormai”) prima del nesso fonematico “mai più”. Per carità, non pretendiamo d’aver risolto niente, e del resto ci rimettiamo all’altrui approvazione, e clemenza. Si dirà: ma esistono suoni caratteristici del mondo fisico che vengono riprodotti in modo simile in quasi tutte le lingue. Replichiamo: la pura onomatopea spesso è un’illusione ‘‘acustica’’. Quello che conta, nell’estetica d’una lingua, è il ritmo, l‘eufonia, a collocazione delle parole, delle sillabe, dei dittonghi. Su tali basi, per quanto generiche, si può parlare di lingue ed espressioni dolci o aspre, armoniose o dissonanti, eccetera, quali risultano a un complesso d’individui ritenuti, all’interno d’una società, dotati d’una “sensibilità media’’. Pertanto l’italiano “mai più”, confrontato al nevermore inglese, non rende certo meglio il chioccio verso del corvo. Ma rende a meraviglia (si capisce, insieme a tante altre cose che ognuno vi può trovare) l’acuto e sconsolato verso dell’assiuolo (cosa che al Praz sembra ridicola) che, per il Pascoli, e non solo per lui, è un grido e un suono di mole: “chiù”.

“Su tutte le lucide vette
tremava un sospiro di vento;
squassavano le cavallette
finissimi sistri d’argento
(tintinni a invisibili porte
che forse non s’aprono più?..);
e c’era quel pianto di morte…
chiù…

(Da Myricae, XI. ‘‘L’assiuolo”, ultima strofa.)

Ma allora, si potrebbe obiettare, il poemetto in traduzione italiana intitoliamolo, invece del Corvo, “L’assiuolo”. È una battuta, certo, ma che ci consente di osservare un altro fatto. Il nevermore del corvo, nelle intenzioni di Poe, deve suonare rauco e vagamente motteggiatore, quasi che al sinistro augurio si unisca il sarcasmo; l’elemento di mistero non è dato dunque tanto dal suono, quanto dall’immagine del volatile che con ali distese penetra nella dimora in penombra. Solo accidentalmente e, diremmo, episodicamente quel suono pretende di contenere una vibrazione arcana; essa invece è più appartenente al contesto. Per la sensibilità di un lettore italiano che bene si compenetri nella situazione descritta, invece, il suono ‘‘mai pliù” esprime qualcosa di tutt’altro che episodico; qualcosa invece di permanente, ampio, acuto, che sembra dissolversi in lontananze profonde…
E quale dei due suoni, ostinandoci a restare in tema d’effetti uditivi, è più evocativo d’inquietante mistero? Ché semmai proprio il verso di corvi e cornacchie, per comune consenso, sembra dare nel goffo e nel grottesco. Ma è quello che voleva il Poe, anche qui qualcuno può dire. Bene, ma il bello della poesia, originale e tradotta, consiste in non ultima parte in questa sua duttilità imprevedibile, per cui da una sensazione più vasta si può attingerne una più circoscritta e viceversa, senza badare per forza a una traccia predeterminata.
Ma dove ci condurrebbero questi discorsi? Ad annoiare, sicuramente, i nostri, eventuali, lettori. Poniamoli di fronte al fatto compiuto: le reazioni sincere dei lettori saranno, finché vivrà poesia, l’autentico, più attendibile metro di valutazione della qualità d’on’opera.

Claudio Angelini

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