di Cristiana Bullita

Aristotele dedica due libri all’amicizia, tra il 335 e il 322 a.C.:

“Coloro che hanno molti amici e che si legano intimamente a tutti quelli che capitano, è comunemente riconosciuto che non sono amici di nessuno”.
(Etica nicomachea)

Li riconosciamo facilmente, gli amici di tutti: sorrisi indiscriminati e pacche sulle spalle, rifuggono ogni confronto dialettico preoccupati soltanto di conferire a te il loro incondizionato assenso, ma anche a chi sostiene esattamente l’opposto. Ipocriti e opportunisti, cerchiobbotisti dell’etica, sono quelli che si propongono come uomini -e donne- della conciliazione, e che impartiscono a te, ostinatamente “di parte”, un’indesiderata e implicita lezione di ecumenismo untuoso, senza smettere di sorriderti e blandirti.
Praticano un’amicizia di piacere, direbbe Aristotele, che è amicizia solo per somiglianza a quella di virtù, l’unica basata su un autentico interesse per il prossimo, e non sull’utilità o sullo svago che dalla sua frequentazione possono derivare.
Per lo Stagirita, per parlare di amicizia sono necessarie tre condizioni: che si abbia con l’altro una consuetudine di vita, che egli sia dotato di un carattere piacevole e che lo si riconosca sostanzialmente uguale per virtù, intelligenza, fortuna.
Io credo che non sia necessario vivere in intimità di rapporti con qualcuno per riconoscerlo amico. La lontananza, anzi, lungi dal produrre oblio (come suggerisce un’amara citazione aristotelica: “molte amicizie un lungo silenzio ha pertanto dissolto”), può piuttosto rafforzare i legami affettivi. Sarà forse che carico di un compito indebito la distanza prodotta da inevitabili divagazioni di vita; mi aspetto che metta in salvo i rapporti veri depositandoli su una vetta di perfezione spirituale e cristallizzando un’empatia antica e incontaminata, libera dai residui empirici del qui e dell’ora. Ma conosco gli agguati dell’idealizzazione.
Le persone scontrose non sono inclini all’amicizia – sentenzia Aristotele – e non vengono facilmente avvicinate:

“la natura manifesta soprattutto di fuggire ciò che è penoso e di tendere a ciò che è piacevole”.

Quest’affermazione, apparentemente ovvia, contrasta però con la mia prassi sociale. Sarà che sono da sempre affascinata dagli individui complicati e tormentati, e invece rifuggo quelli che surfano felici sulla superficie delle cose, tenendo ben lontano lo sguardo dai loro sconcertanti abissi.
Atro importante presupposto dell’amicizia è, in Aristotele, una sostanziale uguaglianza tra individui. E allora ci chiediamo se può essere amicizia la frequentazione di chi resta “dormiente”, di chi rinuncia a interrogarsi e a capire la realtà, se noi invece siamo agitati e pungolati dai grandi quesiti che connotano l’uomo come animale sì, ma razionale e metaphysicum.
E ancora, può esserci sincera e proficua intesa con chi è significativamente più colto di noi? O significativamente più intelligente? O significativamente più ricco?
Quindi, si può parlare propriamente di amicizia (invece che di carità o benevolenza) tra chi partecipa ai processi produttivi, decisionali, distributivi della società e chi vive di stenti, ai margini del sistema?
Le disuguaglianze sociali sono il male più profondo e radicato nelle comunità umane. Esse sono di ostacolo alla realizzazione dei diritti naturali, che prima di appartenere al cittadino appartengono all’uomo. E sono comunemente ostacolo anche all’instaurarsi di rapporti di autentica philìa. Pur ammettendo l’eccezione, come fa Aristotele, credo che sarebbe falso e ipocrita affermare che le differenze economiche non rendono problematici, e talvolta impraticabili, rapporti di vera amicizia. Lo stesso vale, a parer mio, per le differenze di tipo cognitivo e culturale. Basti pensare alla difficoltà di trovare delle attività condivise, senza mortificazione, imbarazzo o sacrificio per una delle parti. Queste riflessioni, naturalmente, riguardano l’amicizia intesa, con Aristotele, come un rapporto orizzontale basato su affinità di sentimenti e stima.
Diverso è il discorso se ci si riferisce a una generica disponibilità reciproca, che può pure arrivare a sostanziarsi in assistenza morale e materiale (“coloro che amano a causa dell’utile”), ma che resta distante dal concetto suddetto di amicizia. Possiamo relazionarci e stabilire proficui rapporti con chiunque: con chi frequentiamo abitualmente e con chi incrociamo per puro caso, con chi è più meritevole o fortunato di noi e con chi necessita di un soccorso frequente ed efficace. Ma l’amicizia è un’altra cosa.
L’orizzonte delle amicizie possibili non è infinito. Se la lontananza e le difficoltà caratteriali non costituiscono, a mio parere, un serio ostacolo, le disuguaglianze intellettive, culturali e sociali possono essere barriere ben più importanti. Però non necessariamente insormontabili.
Per quanto mi riguarda, invece, un limite invalicabile c’è. Esso è costituito da quella che i tedeschi chiamano Weltanschauung, cioè visione del mondo, concezione della vita. Il suo confine più estremo, impressionistico-intuitivo e insieme razionale e controllato, segna la frontiera delle mie amicizie possibili. Ad esempio, non sono e non sarò mai amica di un razzista, di un omofobo, di un violento, di chi esercita un potere qualsiasi con arroganza e prepotenza.
Al di là della legittima e auspicabile divergenza di opinioni che caratterizza gli esseri pensanti in armonica relazione dialettica, chi si colloca fuori della mia Weltanschauung è per me irraggiungibile e io lo sono per lui. Deliberatamente. Perché chi è amico di tutti è amico di nessuno.

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