di Alessandro Ursic
BANGKOK – Era la pena minima in caso di condanna, ed è stata poi dimezzata dalla “clemenza” di una giunta militare data per divisa sulla strada da prendere. Ma, all’atto pratico, per Aung San Suu Kyi cambia poco: la leader dell’opposizione birmana, già detenuta per 14 degli ultimi 20 anni, sarà costretta per altri 18 mesi agli arresti domiciliari e quindi esclusa dalle elezioni del prossimo anno, “colpevole” di aver violato le regole della sua prigionia domestica ospitando l’eccentrico intruso americano che a inizio maggio aveva nuotato fino alla sua residenza sul lago Inya, a Rangoon. Concludendo un processo lungo tre mesi, i giudici avevano inizialmente condannato Suu Kyi e le sue due domestiche – madre e figlia – a tre anni di reclusione con lavori forzati. Dopo alcuni minuti di sospensione è arrivato il colpo di scena: il ministro dell’Interno, Muang Oo, è entrato in aula leggendo l’ordine speciale del generale Than Shwe, numero uno del regime, che mitigava la pena per le donne e la commutava in arresti domiciliari. Una decisione dettata dalla volontà di “mantenere la pace e la tranquillità” e dal rispetto per il generale Aung San, padre di Suu Kyi ed eroe della guerra di indipendenza.
Le tre donne sono già state riportate nella villa della “Signora”, 64 anni, in University Avenue. John Yettaw, l’americano di fede mormone che con la sua impresa ha messo nei guai la donna a sole tre settimane dalla scadenza dei termini dei precedenti arresti domiciliari, è stato invece condannato a sette anni di carcere, di cui quattro ai lavori forzati. L’uomo, 53 anni, era stato ricoverato la settimana scorsa in ospedale per alcune crisi epilettiche, circostanza che aveva fatto temere per un ennesimo rinvio del verdetto. Gli avvocati di tutti e quattro i condannati hanno annunciato di voler presentare ricorso contro la sentenza. La condanna di Suu Kyi, che rischiava fino a cinque anni di carcere, era largamente attesa. Ma i ripetuti rinvii delle udienze da parte del tribunale avevano segnalato, secondo diversi osservatori, che la giunta stava cercando una soluzione per apparire più ragionevole e al tempo stesso escludere l’icona della dissidenza dalle elezioni del prossimo anno, atto finale della “road map” verso la democrazia, che l’opposizione considera un cinico tentativo del regime di legittimarsi con una facciata civile. In base a una legge promulgata dalla giunta negli anni scorsi, Suu Kyi non avrebbe comunque potuto candidarsi, essendo stata sposata a un cittadino straniero. La comunità internazionale ha reagito con indignazione al verdetto, a partire dall’Onu: il segretario generale Ban Ki-moon, a cui lo scorso luglio Than Shwe aveva negato il permesso di visitare il premio Nobel, ha auspicato il suo rilascio “immediato e senza condizioni”. Il segretario di Stato americano, Hillary Clinton, ha dichiarato che Suu Kyi “non doveva essere né giudicata né condannata”, mentre l’Unione Europea ha prospettato nuove sanzioni contro il regime. Ma, come ha sottolineato la Farnesina in una nota di condanna, i generali birmani “hanno scelto di ignorare le proteste provenienti da larga parte della comunità internazionale”.
La giunta, che ha dato quindi una nuova prova di essere insensibili alle sanzioni occidentali, può contare comunque sul sostegno di diversi Paesi – Cina, India e Thailandia su tutti – che appoggiano il regime acquistando le cospicue risorse naturali birmane e opponendosi alle sanzioni in seno alle Nazioni Unite. Pechino, in particolare, negli ultimi mesi aveva segnalato un parziale cambiamento di rotta, allineandosi agli appelli internazionali; anche i Paesi dell’Asean (sud-est asiatico) avevano assunto posizioni insolitamente critiche nei confronti del regime. Ma in seguito alla sentenza, oggi non ha ancora parlato nessuno.
Commenti