di Gianni Vianello
L’Europe3 della British Airways, proveniente da Heathrow, giunto sulla verticale della piattaforma di acciaio e cemento, fece l’inversione delle turbine e attese in stand-by l’autorizzazione al parcheggio. Sui monitor apparve l’annuncio: VENICE AIRPORT… 04:48:04pm… 4thJune 2029… 320 FEET… 84°F… e le telecamere esterne mostrarono le immagini a tutto campo della città lagunare, mentre la telemetria virtuale comparava la topologia dell’ambiente prima della Grande Marea.
Negli ultimi dieci anni il surriscaldamento terrestre aveva sforato le proiezioni matematiche di biologi e meteorologi e a nulla era valso il monitoraggio di centinaia di aerei sonda attorno al pianeta. La temuta reazione a catena, per il progressivo scioglimento dei ghiacci e il conseguente mutamento delle correnti oceaniche, aveva modificato notevolmente il clima, provocando, dove più dove meno, inondazioni e siccità.
Venezia era in parte sommersa. La laguna era percorsa da hovercraft militari e da pochi natanti civili; le isole minori dell’estuario erano state abbandonate ed erano diventate delle discariche. Ai margini della città, di fronte al mare, torri cilindriche, di acciaio e vetrovisarm, sospese su piloni, ospitavano gli uffici dei consorzi internazionali per la sorveglianza del territorio e poco si integravano con le case popolari e i palazzi. Anche la navigazione interna era compromessa e così l’ancoraggio degli approdi.
Lìlja Rossati era seduta nei posti di coda e, in quella manciata di secondi, provò una forte emozione. Veniva da un’altra città costiera, San Pietroburgo, dov’era nata e che aveva rivisto, dopo anni di assenza. Le acque del Golfo di Finlandia avevano invaso lentamente il delta: la visuale sinottica dei satelliti confermava un rialzamento di oltre un metro. Anche lì il traffico commerciale era in crisi: solo poche chiatte potevano passare sotto i ponti Amikov, S.Trinità o il ponte Blu. Industrie e allevamenti erano stati trasferiti in località sicure e la regione era sotto il controllo dei robot ambientali.
Vi era tornata come secondo violino di un quartetto che aveva presentato il “Nono” di Shostakòvich, al Teatro Mariinskij. L’esecuzione era andata benissimo e, benché la città fosse presa da altre priorità, il teatro era pieno di gente entusiasta per un evento così poco frequente.
Dopo il concerto si era trattenuta ancora una settimana, il tempo necessario per essere addestrata al compito che doveva svolgere a Venezia. Aveva lasciato San Pietroburgo, col volo delle 9.30 per Heathrow, dove aveva cambiato aereo.
Quando l’aviogetto, fermò i motori sull’area di parcheggio, il gruppo chiassoso di ragazze inglesi si gettò sui bagagli a mano e si accodò agli altri passeggeri. Per Lìlja, alta, slanciata, capelli e occhi chiari, era facile confondersi tra le allieve di un college londinese. Il gruppo venne distribuito su un paio di motoscafi privati che approdarono ad un terminal. Qui lei abbandonò la comitiva e si imbarcò su uno dei battelli che percorrevano il Canal Grande. Scese ad un pontile che aveva segnato sulla cartina e si inoltrò di buon passo nelle calli laterali, attenta a non scivolare sulle tavole di legno che, nelle zone allagate, formavano i camminamenti fissi sopra l’acqua. Seguendo un percorso definito, si trovò in un piazzetta, di fronte ad un piccolo fabbricato fatiscente: dipinto sull’architrave di un portone verde, c’era il numero che stava cercando. Armeggiò con una chiave antica, con la grossa mappa all’estremità, e si trovò di fronte ad una ripida scala che aveva i primi gradini sommersi dall’acqua, poco illuminata e che conduceva all’appartamento. Un odore di muffa impregnava gli ambienti: aprì con attenzione un paio di imposte e sollevò il telo bianco che copriva un vecchio divano. Foto ingiallite, dentro ossidate cornici d’argento, e vecchi soprammobili impolverati erano sparsi sopra un tavolo di noce e sul ripiano di una credenza. Ebbe una vaga impressione di essere già stata in quel posto, ma poteva anche averne sentito parlare da bambina. Sapeva però che quegli oggetti, lasciati in giro da chi stava per abbandonare la casa, un tempo erano stati scelti con amore e disposti con scrupolo.
Riflettendo su quelle cose del passato, cominciò a spogliarsi. Scalciò con sollievo i sandali bagnati, con quei tacchi impossibili, staccò la parrucca e lasciò scivolare la tuta verde oliva di helicon lungo il corpo proporzionato. Andò nel piccolo bagno, si struccò e si tolse le lenti cosmetiche. Quando rientrò nella camera per disfare il bagaglio, lo specchio antico dell’armadio di quercia rimandò l’immagine di una ragazza di media statura, dai capelli e dagli occhi castani. Lìlja somigliava moltissimo ad Antonio, suo padre.
Aprì la sacca, scostò gli spartiti e un libro di poesie ed estrasse un vecchio GPS-8, con basemap internazionale R310, un portatile ed una scatola di balsa, con cinquanta piccoli sigari italiani, che un giovanotto alto e biondo le aveva porto discretamente nella sala arrivi dell’aeroporto. Era un regalo per Antonio: ricordava l’aroma forte e pungente di quei sigari. Li fece uscire tutti ed estrasse i due piccoli dischi ottici che stavano sul fondo: con quelli poteva ottenere il meglio della crittografia simmetrica e una aggiornata cartografia digitale della città.
Aveva sempre con sé razioni bilanciate di carboidrati e complesso vitaminico e una di quelle fu la sua cena. Poi attivò il farmaco che portava sottocute per equilibrare il rapporto glicemico. Un piccolo handicap congenito che doveva tenere controllato. Non lo avrebbe ammesso, ma era nervosa: l’incarico di suo padre le stava a cuore più di ogni altra cosa. Aspettava un riscontro da Monthey, in Svizzera. Guardò il cronometro e si lasciò cadere sul divano, stringendo il palmare nella mano.
Quello stesso giorno, alle 21, ora di Mosca, due terminali vennero accesi quasi contemporaneamente. Davanti al primo, in una dàcia, nel villaggio protetto di Sezhodnya, tra le Colline dei Passeri, c’era il maggiore Vladìmir Gòrovic, comandante la Scuola di Intelligence; davanti al secondo terminale, in un cascinale ristrutturato della campagna intorno a Venezia, a pochi chilometri dall’aeroporto, c’erano il capitano Sergéj Verbin ed il capitano Pàvel Ivànov, addetti militari d’ambasciata.
Dopo aver scambiato i codici di riconoscimento e controllato la schermatura elettronica, il maggiore lanciò un messaggio cifrato che Verbin e Ivànov decrittarono simultaneamente:
Operazione S9 – ultimo briefing – meno 12 ore alla triangolazione – operatore periferico con satellitare R310 pronto ad attivarsi al segnale cifrato di Sergéj per 30 secondi – da localizzare le coordinate della cella – errore da 1 a 3 metri – RMS: 20 decimi con ricevitore differenziale – il modem integrato è ottimizzato con connessione a raggi infrarossi – simulata la procedura di avvicinamento del bersaglio con il suo contatto – il codice di riconoscimento non sarà protetto – a ore zero Pàvel catturerà l’input e farà il puntamento sul bersaglio – unità di frequenza max 4,2 hertz – il satellite utile sarà in posizione da ore zero per 8 primi 40 secondi – avete le istruzioni personali per il rientro in qualsiasi circostanza – 10 secondi alla chiusura del collegamento – buon lavoro signori –
I due ufficiali confermarono la ricezione e spensero il terminale. La missione era esecutiva. Il protocollo non consentiva al personale operativo di conoscere la natura e il tipo di bersaglio.
Gòrovic uscì dallo studio e scese nello scantinato che sua moglie aveva adattato a taverna. Da quando lei era mancata e il loro unico figlio, ufficiale di polizia, era deceduto in servizio, usava la dispensa per conservare la poca vòdka fatta dai contadini e ora le bottiglie di vecchio vino italiano che il console Antonio Rossati gli aveva regalato l’ultimo Natale. Aveva apprezzato moltissimo quel dono prezioso, visto che la coltura della vite era ormai dimezzata. Stappò, con estrema cura, un Barolo vecchio di vent’anni, ne centellinò con godimento mezzo bicchiere, brindando alla buona riuscita dell’operazione, e richiuse la bottiglia con altrettanta cura.
Vladìmir Gòrovic era dell’ ’85, alto e magro, come tutti i maschi della famiglia, e rappresentava la quarta generazione di militari. Dopo il golpe del ’91, il Comitato per la Sicurezza era stato sostituito, in ogni Repubblica, da una nuova Intelligence e Vladìmir, nel 2025, a soli quarant’anni, era divenuto il comandante della Scuola di Sezhodnya.
Durante le guerre etniche e il terrorismo che ne era derivato, si era velocemente dilatata la criminalità mafiosa. Con gli introiti del mercato della droga e il controllo di altre attività illecite poteva contare su tecnologie di ultima generazione e sulla correità di molti funzionari dello stato. Gòrovic, per poterla contrastare, aveva ricostituito un vecchio organo di polizia, con poteri pressoché illimitati e senza ingerenze burocratiche, e ne rispondeva di-rettamente al Ministro dell’Interno: il Dipartimento Indagini Speciali “S9”.
Infilò una sigaretta nel vecchio bocchino di osso, l’accese con calma e andò nel garage attiguo alla taverna. Rassicurò al citofono l’autista, addetto alla sua protezione, che si sarebbe recato pochi minuti in ufficio ed uscì con la vettura personale. Prese il viale che dal villaggio porta, in leggera discesa, alla superstrada per Mosca.
Era una sera di luna piena. Dalla collina poteva vedere, frammentati dagli esili tronchi delle betulle, il lieve barbaglio del corso del fiume e le cupole d’oro del monastero Novòdevic. Dopo aver superato il severo edificio militare, rallentò ed accostò sotto il debole neon intermittente di una vecchia osteria, dove facevano una saporita zuppa di cefali. Estrasse da una logora custodia un vecchio palmare e digitò un numero che usava raramente:
– Allô? Qui est à l’appareil? – rispose Antonio Rossati.
– Il Barolo ha un bouquet incredibile – disse il maggiore nel suo approssimativo francese, e soggiunse – domani sarà una bella giornata.
Dopo un attimo, ritornò la voce di Antòn: – Ti ringrazio zio… Tua nipote è nella casa sicura. Manderò i tuoi saluti.
Erano termini concordati, ma, al di là di quegli artifici, tra i due si poteva avvertire una grande stima: erano accomunati da eventi dolorosi, tra loro c’era ormai una riservata intesa che sopravanzava anche l’amicizia.
Qualche anno prima, la moglie di Antonio, Anna Gàlina, era scomparsa. Lui allora era console italiano a San Pietroburgo: il fatto aveva costituito materia di sicurezza interna e riguardava il maggiore Gòrovic. Fu in quella triste circostanza che si conobbero. L’inchiesta, riservata, rivelò che si era trattato di una fuga sentimentale, una libera scelta, ma che la sua morte, avvenuta mesi dopo, non era stata accidentale come si era creduto. I fatti, e la circostanza che vi fosse implicato un alto ufficiale dei Servizi del Corpo Diplomatico, esigevano una prudente quanto spregiudicata operazione di Intelligence con nessun margine di errore. Antonio, non aveva mai detto a Lìlja la verità su quella disgrazia.
Nell’umido salotto veneziano, Lìlja sentì la vibrazione del palmare. Sul display apparve il volto rassicurante di suo padre:
– Mi ricevi bene?
– Benissimo – disse lei rinfrancata.
– La casa com’è?
– Umida e triste, pà …
– Domani sarà una bella giornata.
Era la conferma per lei. Era contenta di essergli utile.
– Allora domani esco…
– Ti aspetto presto.
Anche questo colloquio impersonale era durato pochi secondi, dentro il limite convenuto.
Quando spense il terminale, intorno a lei ritornò un silenzio carico di malinconia. Sotto le finestre dei passanti stavano attraversando il campo e i passi sulla pietra echeggiavano dai muri delle case intorno. Risuonava così il selciato di via Korsakova, di notte, dopo il teatro. Questa città aveva la stessa anima di San Pietroburgo, pensò, e ricordò, di un libro che aveva con sé, i versi veneziani di Jòsif Bròdskij: “Nessuno ha nulla da fare qui, la notte. / Batte un tacco solitario sull’acciottolato…”
Cercò di dormire, dimenticando il fastidio delle molle deformate del vecchio divano, ma quella stanza evocava in lei i ricordi di adolescente.
Suo padre era appartenuto ad una famiglia della borghesia veneziana. Era portato per la carriera diplomatica ed era giovanissimo quando, dopo gli studi, aveva iniziato il tirocinio a Londra. Durante un breve periodo di vacanza a Venezia, per un cambio di sede, aveva conosciuto Anna Gàlina, di San Pietroburgo, alla festa di laurea e se ne era innamorato. Era stato assegnato all’ambasciata di Berlino e sei mesi dopo erano sposati. Lei era nata l’anno dopo ed aveva preso il nome della nonna materna. Poi c’erano stati altri trasferimenti. Anna Gàlina era perfetta come moglie di un diplomatico, ma aveva fatto tanto per diventare un bravo architetto e quel ruolo di rappresentanza non la gratificava. Voleva esercitare. Ad ogni costo. Ma, da qualche anno ormai, non era più a contatto con la professione. Così si era rivolta a tutti gli amici. Era passato del tempo e proprio quando sembrava che non vi fosse soluzione al suo problema, aveva cominciato a collaborare con un importante studio associato di San Pietroburgo che si occupava di opere pubbliche e, solo pochi mesi dopo, Antonio aveva avuto l’incarico di console generale nella stessa città. Una combinazione insperata. Col tempo, sua madre si era fatta strada nell’ambiente, aveva aperto uno studio suo ed era sempre presa da mille impegni di lavoro che l’avevano portata spesso fuori città. Antonio aveva vissuto la sua vita-carriera in un mondo a parte che si era incontrato poco con quello di Anna. Lei, da bambina, aveva una forte inclinazione per la musica e, dopo aver frequentato vari conservatori, si era diplomata in violino. La famiglia conduceva una vita brillante e apparentemente serena ma, una sera d’autunno, Anna non aveva fatto ritorno a casa. Di sua madre erano rimasti un triste, incomprensibile biglietto di addio e pochi vestiti. Lìlja e suo padre avevano trascorso mesi di profondo sconforto, incapaci entrambi di farsene una ragione.
Circa un anno dopo, il maggiore Gòrovic, l’ufficiale federale che si era occupato del caso, le aveva richiesto il test del DNA, per confrontare il suo profilo con quello di una donna, vittima di un incidente stradale. Il corpo da identificare era proprio quello di sua madre.
Mesi dopo il funerale di Anna, Antonio, che nel frattempo aveva fatto richiesta per un’altra sede, era stato distaccato al consolato di Ginevra ed aveva trovato casa a Monthey, a qualche chilometro dalla città.
***
La luce iridescente, che penetrava dalle losanghe di vetro antico, ed il bip monotono del cronometro svegliarono Lìlja da un sonno irrequieto. Appena riuscì a far mente locale, ricalcolò i tempi necessari per trovarsi sul luogo indicato dalle coordinate. Inserì il dischetto nel portatile e fece una prova cartografica. Nel perimetro utile qualsiasi posto andava bene e includeva anche la vicina zona dell’Università, con la consueta confusione di studenti. Indossò la tuta, calzò un paio di scarpe comode, controllò che le imposte fossero accostate e richiuse la casa con scrupolo. S’infilò in una sala di videolettura e usò una delle tante postazioni ancora libere. Estrasse solo il satellitare e attese il segnale cifrato. Il seguito del protocollo era alquanto semplice: doveva digitare il numero del cellulare del bersaglio, che aveva in memoria, con la certificazione crittografica e, dopo 10 secondi, spegnere i componenti. Un procedimento che aveva già simulato a San Pietroburgo, con assoluta precisione dei tempi.
Lìlja sapeva che si trattava di una procedura di identificazione, un supporto all’attività diplomatica del padre, collegata ad altri operatori. Una prova di fiducia ed insieme l’opportunità di essergli utile.
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Il colonnello Nikolàj Akìmov, aveva lineamenti forti ed un personale ancora attraente per i suoi quarantasei anni. Era un militare di carriera, con trascorsi nel controspionaggio, prestato alla diplomazia. Infatti apparteneva ai Servizi per il Corpo Diplomatico, ma usava la sua posizione e il suo grado in faccende poco pulite che spesso sconfinavano nel crimine. Suo padre aveva fatto parte del GRU¹, i Servizi segreti dello stato maggiore, ai tempi del capitalismo selvaggio, e Akìmov era maturato a contatto con quell’ambiente di corruzione e di ricatto.
Personaggio privo di scrupoli, aveva lavorato sia per il governo, sia per la mafia etnica, secondo opportunità politiche e tornaconto personale del momento: un doppio gioco in piena regola e condotto in modo così abile che qualcuno molto in alto lo aveva proposto per la Stella al Merito del Lavoro.
Si sentiva in forma, quella mattina di giugno, quando si svegliò nell’albergo a Venezia. La scelta di quella piccola, scomoda città per un incontro segreto ad alto livello non lo aveva trovato d’accordo ma poi, imprevedibilmente, era stato messo in minoranza dalla commissione militare. Aveva chiesto la colazione per sé e per il suo nuovo segretario. Per una volta poteva fare a meno delle insipide confezioni sintetiche che il medico gli aveva consigliato. Il semplice intervento di by-pass di qualche anno prima e l’applicazione di uno stimolatore, gli avevano rimesso a nuovo il cuore e fatto ringiovanire di dieci anni.
Nikolàj aveva l’abitudine di fare una breve passeggiata dopo colazione e uscì sotto il pallido sole che rischiarava la città. Non ricordava più quanti anni erano passati dal suo primo viaggio a Venezia.
All’accademia militare era stato tra i migliori classificati e i suoi vecchi gli avevano regalato un viaggio in Europa. Aveva scelto Venezia, per pura curiosità, visto che molti la confrontavano alla sua città, San Pietroburgo.
Ora non era facile distinguerne le strade, stravolte dai camminamenti obbligati, eppure qui il destino gli aveva fatto incontrare il suo primo amore e una volta arrivato ad una piccola piazza aveva riconosciuto i luoghi dei vibranti appuntamenti con una studentessa di architettura, sua concittadina. Era bellissima, fresca come una rosa dei giardini dell’Ammiragliato. Non avrebbe mai dimenticato l’amore puro e ardente di Anna Gàlina.
Gli impegni del servizio lo avevano portato in giro per la Russia. Si erano scambiati ogni tanto brevi e-mail e aveva saputo che si era laureata e sposata. Poi, per anni, il silenzio, al punto che aveva creduto di averne perso ogni traccia, ma, un giorno, lei gli aveva scritto delle sue insoddisfazioni e del suo desiderio di tornare a San Pietroburgo e cercarsi un lavoro. Lui, ufficiale superiore, con ottime conoscenze negli ambienti che contano della città, si era fatto in quattro per facilitare il trasferimento suo e del marito. In seguito aveva fatto amicizia con il console Rossati nei circoli diplomatici ed aveva ospitato la giovane coppia nella sua dàcia, come parte della ristretta cerchia di amici.
Nikolàj, che non aveva mai smesso di amare Anna Gàlina, col tempo l’aveva indotta a trasformare la loro amicizia in una nuova relazione. Al suo primo incarico stabile ad Helsinki, l’aveva convinta ad espatriare.
Dopo pochi mesi di convivenza, Anna era stata presa dai rimorsi così profondamente che era caduta in depressione. E quando gli aveva chiesto di ritornare in Russia, Nikolàj sentì che la stava perdendo e aveva creduto d’impazzire di gelosia, ma le aveva fatto credere di volerla aiutare. Le aveva dato una macchina privata, controllato la taratura del generatore di soccorso e preparato personalmente un thèrmos di caffè. Poi l’aveva accompagnata al confine, già imbiancato dalla prima neve.
Anna guidava senza sosta, con tutta la velocità che poteva, evitando la superstrada, come le aveva consigliato Nikolàj. Mancavano più di cento chilometri a San Pietroburgo: qualche ora di viaggio la separava da Antonio e Lìlja. Avrebbero perdonato? Improvvisamente la macchina era uscita di carreggiata, aveva urtato violentemente uno spaz-zaneve parcheggiato ai bordi della strada ed era come esplosa nell’impatto. Quelli della Stradale avevano trovato un corpo straziato senza documenti o altri riferimenti personali; della macchina non vi era traccia alcuna nei terminali del dipartimento federale e il generatore di soccorso, obbligatorio da anni, era scollegato. Così avevano registrato il sinistro come: “morte accidentale dovuta a perdita di controllo del veicolo…” e trasmesso gli atti alla Procura Generale e – non avendo potuto identificare la vittima – all’Ufficio per la Sicurezza Interna. Il medico legale, che era stato mandato sul posto, aveva poi trovato nel sangue della donna cospicue tracce di aminazina², ma il referto autentico di laboratorio non era mai arrivato al Coroner. Il giovane medico era così poco conosciuto nell’ambiente che nessuno ci fece caso, quando non s’era più visto in giro.
Seduto in un caffè di fronte al Canal Grande, Nikolàj Akìmov sorseggiava, con un certo disgusto, una vòdka polacca. Un’altra piccola trasgressione alla sua dieta.
Quei ricordi sembravano dissolversi. La storia con Anna Gàlina si era risolta oltre ogni sua migliore aspettativa: niente poteva ricondurre alla sua persona. Alla fine, quella faccenda non lo riguardava più.
Aspettava un messaggio crittografato della Sezione U, il segnale per l’inizio del protocollo di avvicinamento del suo contatto. Ma quel segnale non arrivò mai. Di esso arrivò una perfetta simulazione, stessa procedura, stessa frequenza: poco lontano, la cella periferica aveva inserito il numero che aveva in memoria e attivato l’identificazione. Quando il display si illuminò con i dati, Nikolàj Akìmov si accinse a digitare il codice personale di riconoscimento, senza proteggerlo. L’input venne catturato dal sistema GLONASS del capitano Verbin ed entrò nel faro di puntamento del secondo ufficiale, Ivànov.
Un microchip liberò una frequenza di 4,2 hertz: Akìmov sentì il battito cardiaco perdere regolarità e provò un senso di smarrimento e di nausea. Vide con sgomento, sopra di sé, la faccia inespressiva del segretario e fece solo in tempo a capire che quel contatto era un bluff.
Non riusciva a respirare e la bocca spalancata alterò il viso imperlato di sudore, sentiva la vita sfuggirgli: nelle tracce della sua memoria, sempre più veloci, sempre meno nitide, scorreva l’immagine del corpo senza vita di Anna tra le lamiere della macchina. Poi, la fibrillazione ventricolare, inesorabile, lo irrigidì sulla sedia.
L’autopsia, eseguita qualche ora dopo alla presenza del console russo, confermò il decesso per crisi cardiaca, causata dalla improvvisa disfunzione del pace-maker ed il corpo venne imbarcato quella sera stessa su un aereo militare. L’indomani i media diedero la notizia che il Colonnello Nikolàj Akìmov, fedele servitore dello stato, Stella al merito del Lavoro, era deceduto per cause naturali mentre era impegnato in una missione all’estero.
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L’indagine sulla morte di Anna Gàlina, dopo l’identificazione ed altri esami autoptici, aveva preso tempo nella raccolta ostinata di prove per una incriminazione.
Le tracce nei computer della corrispondenza tra Akìmov ed Anna, i sospetti di Rossati sulle attenzioni del colonnello per la moglie, dopo che si erano stabiliti a San Pietroburgo: su questo poteva contare ufficialmente Gòrovic. Niente testimoni. Niente di niente. Senza indizi rilevanti, la corte federale avrebbe ritenuto alquanto inopportuno iniziare una istruttoria. Per contro, la presenza della droga micidiale, vecchio, collaudato espediente usato dal KGB, la macchina senza identificazione, la sparizione del giovane patologo, che nessun campo innevato della Siberia avrebbe mai restituito alla madre, ed altre finezze, tutto riconduceva ai metodi di Akìmov.
Il colonnello aveva molti conti da regolare, anche remoti e personali, con Gòrovic, per la morte del figlio, durante un’azione di polizia che riguardava la sua giurisdizione. Fatto sta che, dopo l’ultimo incidente, il Dipartimento Indagini Speciali del maggiore Gòrovic l’aveva preso in osservazione e poco dopo era stata emessa la sentenza.
Erano passati dei mesi prima che il progetto fosse potuto diventare operativo. Quando Gòrovic aveva confidato al console la fattibilità del piano, questi lo aveva convinto ad affidare il lavoro marginale di cella periferica a Lìlja: come incarico riservato al padre, comunque nel rispetto del protocollo operativo dell’S9. E con questo segreto accordo, il maggiore aveva pianificato la missione e organizzato il breve tirocinio a San Pietroburgo.
Riposto il portatile e gli altri componenti nella sacca, Lìlja abbandonò la sala e s’incamminò verso Piazza San Marco, completamente sommersa, per vedere dalle transenne la Basilica d’oro, che tanto le ricordava la Cattedrale di S.Trinità, e si mischiò ai turisti, dovunque tormentati da venditori ambulanti e mendicanti. Ora, prima di partire, le rimaneva il tempo per una visita d’obbligo che si era prefissa da quando aveva lasciato Monthey. Due grandi pietroburghesi, Igor Stravìnskij e Jòsif Bròdskij, erano entrambi sepolti a Venezia, al cimitero monumentale. Vi depose dei fiori e recitò la breve preghiera che Antonio le aveva insegnato per la mamma. Quindi ritornò, non senza difficoltà, al terminal dove era scesa il pomeriggio dell’arrivo e si sedette esausta all’interno del pontile galleggiante, in attesa del mezzo che l’avrebbe riportata all’aeroporto.
La giornata era vicina al tramonto: dall’orizzonte un sole ancora intenso accendeva d’infilata gran parte del Canal Grande. Ma il tempo sembrava volersi guastare: un banco di nuvole grigie si muoveva lentamente da sud, lateralmente ai raggi del sole. Per pochi minuti il contrasto tra l’oscurità incombente e quella luce ancora vivida che penetrava il canale, dette a quel punto della città una parvenza surreale. L’acqua, quasi ferma, rifletteva, con tutte le variazioni, le tremolanti linee pure dei marmi e l’intonaco giallo o rosa delle facciate cinquecentesche dei palazzi. In quella mutabilità infinita della luce, Lìlja rivide i modelli reali delle opere dei vedutisti che tante volte aveva ammirato all’Ermitage.
All’arrivo del motoscafo, la ressa della gente, pronta per l’imbarco, la distolse bruscamente da quella visione e la sospinse dentro. Un’ora dopo, un aerotaxi con ventidue passeggeri diretti a Ginevra era pronto al decollo, ma dovette dare la precedenza ad un aereo militare, che portava sul muso le insegne della Federazione Russa. Dal finestrino Lìlja osservò il jet che si alzava in volo verticale, spinto dal fuoco delle turbine, finché non cambiò assetto e sparì dalla sua visuale.
Era quasi notte, una leggera nebbia radente avvolgeva le colline di Monthey, quando Lìlja riabbracciò Antonio. Suo padre aveva nello sguardo una espressione di sollievo che lei non colse interamente. Lo rimproverò dolcemente di essere troppo apprensivo e, come a rincuorarlo, gli porse la scatola dei sigari.
Nel piccolo studio trovò un mazzo di rose gialle e un pacco anonimo, confezionato con voluta negligenza. Incoraggiata, disfece l’incarto: c’era una custodia da violino, dentro la quale riconobbe subito lo strumento che negli ultimi tempi era l’attrazione di una vetrina di Place Neuve, a Ginevra. Infilato tra le corde c’era un biglietto: Regalarti un violino italiano è sempre stato un desiderio di Anna. Io l’ho solo comprato. Antonio.
Erano commossi e felici come non lo erano stati da tempo. Lìlja avrebbe voluto parlare di tante cose, ma gli raccontò solo del concerto e dell’acqua che assediava le città.
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Note:
¹) Glavnoe Razvedyvatelnoe Upravlenie.
²) Droga, che appena assunta, inibisce il controllo muscolare.
racconto tratto dal libro omonimo “Un violino per Lìlja” – per informazioni
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