di Alina Rizzi
Racconto pubblicato sulla rivista Confidenze (Mondadori) n.8 il 22-02-2006

Primipara attempata. Così mi hanno definita in ospedale, quando ho avuto Alessio, il mio biondo bambino. A trentasei anni, per i medici, non sei sicuramente una madre ideale, a livello fisiologico. E quarantotto ore di parto ( le acque si sono rotte con tre settimane d’anticipo, ma mio figlio non ne voleva sapere di uscire dal suo scomodo bozzolo), lo dimostrano ampiamente.
Il guaio è che io non solo non mi sento una mamma ideale a livello fisico, ma neppure in qualunque altro senso. Voglio dire che se mi guardo attorno, qualunque donna con figli, giovane o matura, casalinga o lavoratrice, è sicuramente migliore di me. Lo so, detta così, sembra una scontata lamentela della classica “perfettina”, mai contenta di niente, tanto meno di se stessa, in realtà sono stata piuttosto male alcuni mesi fa.
Ricordo la nascita di Alessio come fosse ieri: dopo due giorni esatti di tentativi e snervante attesa, alla fine si è deciso ad incontrare i suoi genitori. L’emozione ci ha lasciati come storditi. Io e Lorenzo, mio marito, ci siamo guardati in faccia senza riuscire a dire una sola parola: io ridevo e piangevo, lui non riusciva neppure ad aprir bocca. Effettivamente quel fagotto umido aveva tutta l’aria di un miracolo, oltre che di un ranocchio. Rosso e grinzoso, con gli occhi appiccicosi ma già vispi e attenti, le mani grandissime che cercavano le nostre dita a cui aggrapparsi, quei piedi lunghi lunghi e magri, identici a quelli di suo padre. Era un mostriciattolo meraviglioso, come tutti i bambini appena nati. Ero così felice che ho firmato per tornare a casa il giorno successivo. Volevo riprendere la mia vita e occuparmi di Alessio in tutta tranquillità, senza quel via vai ininterrotto di medici, pazienti e visitatori. Per la verità le infermiere non erano molto d’accordo con la mia scelta, volevano che mi trattenessi per i consueti tre giorni di ricovero, ma alla fine mi hanno lasciata andare. E così sono tornata a casa, raggiante. Il guaio è che l’euforia è durata poco: passate poche ore il mondo mi è precipitato addosso. Come mai nessuno mi aveva avvisata che sarebbe stato tanto difficile?
Guardo Alessio che dorme nel suo lettino di bambù con gli orsetti dipinti sulla testata, abbracciato alla renna che gli ho portato in regalo dal mio breve viaggio di lavoro a Bolzano, con la coperta rossa che ho lavorato a maglia durante la gravidanza, buttata di lato. Ha due anni adesso e non assomiglia più ad un ranocchio ma ad uno splendido bambino dagli occhi grandi e il carattere un po’ irrequieto.
Lo copro facendo attenzione a non fare un solo rumore: ha il sonno leggero, se si sveglia e mi vede non c’è più verso di rimetterlo nel letto. Fosse per lui non dormirebbe mai. Ma questo da sempre.
Dopo la nascita non ha mai saltato un pasto: ogni tre ore era sveglio come un grillo e cercava il suo latte strillando impaziente. E poi per farlo addormentare era un ‘impresa! Quanti chilometri percorsi avanti e indietro tra la camera e il salotto, quante ore seduta sul bordo del letto a cullarlo nel buio, quante notti in bianco. E’ passato poco tempo, in fondo.
Ecco mia madre, che per consolarmi ripete:
– Non lamentarti:è tale e quale a te. Non hai dormito una notte intera fino ad un anno!-
– Lo so, – rispodo, – me lo hai detto tante volte.-
– Ma come facevi?- insiste, sperando in una soluzione rapida e indolore.
Lei alza le spalle.
– Con tanta pazienza,- è la sua unica risposta.
Il guaio è che io di pazienza ne ho sempre avuta poca, questo è un fatto, e non dormire la notte, si sa, rende ancora più nervosi.
Mia cognata, al telefono, suggerisce soluzioni più pratiche:
– Dimentica le faccende domestiche, stacca il telefono, e quando dorme lui dormi anche tu.-
– Di giorno? – rispondo incredula.
– Con tutto quello che ho da fare, le lavatrici, le pulizie, il brodo di verdura!-
Non ascolto neppure: ordine e pulizia mi sembravano sacrosanti con un neonato in casa.
Ovviamente poi sono sempre sfinita, ma questo lo reputo di secondaria importanza.
Per la verità, anche adesso sono spesso stanca, perché un bambino di due anni non concede molti momenti di pausa. Però quando lui dorme, nel primo pomeriggio, io mi sdraio sul divano e leggo, sperando si attenui il mal di schiena cronico arrivato insieme alla gravidanza. Oppure, se ne ho voglia, mi lavo i capelli con balsamo e creme varie. O magari telefono a un’amica. Insomma mi prendo del tempo per me, senza pensare ai panni da stendere e alla polvere sulla libreria. Ma ci sono voluti due anni per arrivare a questo traguardo.
La mia amica Anna, che è single come quasi tutte le mie coetanee, a volte sembra compatirmi.
Mi vede arrivare nel suo negozio di abbigliamento col passeggino, Alessio che fa i soliti capricci, l’aria stravolta di una che non dorme mai abbastanza, e scuote la testa.
– Ma chi te lo ha fatto fare?- sembra dire, e a volte lo dice davvero.
– O bella, ma nessuno. E’ stata una scelta, – rispondo convinta.
Lei lo sa bene come sono andate le cose: avevo trentacinque anni e non riuscivo ad immaginarmi il resto della vita senza un figlio. Non me la sono sentita di rinunciare a questa esperienza, anche se non ho mai avuto un grandissimo istinto materno.
– Io non lo sopporterai mai un bambino attaccato alla gonna dalla mattina alla sera, – mi dice, riordinando gli abiti sulle grucce, e guardando mio figlio come fosse un delizioso… marziano.
– Lo so, – le rispondo cercando di essere comprensiva.
– Anche perché, non avendo figli, è difficile immaginare come potrebbe essere. –
Anna non calcola mai un particolare: che quel figlio, di solito, lo ami e questo ti spinge a fare tantissime cose che non avresti mai sospettato di poter affrontare. Lei non ne sembra molto convinta, però.
– Allora di cosa ti lamenti? – mi chiede un po’ piccata.
– Mi lamento perché sono sempre stanca, perché vorrei avere più tempo per me, perché vorrei lavorare senza sentirmi una ladra .-
Anna fa una smorfia, come volesse sbattermi in faccia quella vecchia e odiosa frase: “ Hai voluto la bicicletta? E allora pedala!” Però si trattiene. Anche perché io pedalo, eccome se pedalo: ormai ho dei polpacci da ciclista.
Infatti riesco a stare con mio figlio, a mandare avanti la casa da sola, visto che Lorenzo lavora a cinquanta chilometri di distanza ed esce la mattina presto per rientrare all’ora di cena, e da qualche tempo ho ripreso anche a tradurre qualche testo, che sarebbe poi il mio mestiere, cioè quello che facevo prima della nascita di Alessio.
Eppure, ancora non mi sento una brava mamma. Forse perché non voglio rinunciare al mio lavoro, forse perché a volte preferisco stare al telefono con un’amica piuttosto che fare le costruzioni col lego, oppure perché non sopporto di perder tempo in cucina e le verdure le compro tutte surgelate.
O magari perché c’è la mia amica Claudia, l’unica con due figli, maschio e femmina, entrambi alle elementari ormai, a ricordarmi come andrebbero fatte le cose. Lei alle nove di mattina, depositati i figli a scuola, sta già cuocendo l’arrosto per il pranzo e pulendo tonnellate di ortaggi acquistati freschi al mercato. Conosce tutti i negozi per bambini più economici, sacrifica i pomeriggi per condurre l’una a danza e l’altro a scuola di violino, oltre che in piscina e al catechismo. Non ha mai lasciato soli una notte i suoi figli, festeggia gli anniversari di matrimonio in casa per coinvolgerli, detesta lo shopping del sabato pomeriggio. E non va al cinema da anni, se non per vedere film di Walt Disney con i bambini.
Ma se quella è la mamma mamma, quella vera, io che cosa sono?
Me lo chiedo anche adesso, ma con più serenità e ottimismo. Tempo fa, invece, questa domanda è stata una specie di tarlo ossessivo pronto a rosicchiarmi i giorni e le notti.
Mi rivedeo, dopo la nascita di Alessio, con l’insonnia, la gastrite, e una quantità di piccoli disturbi per i quali il medico mi prescrive sostanzialmente riposo e tranquillità.
– Cosa pretende signora? Con un bambino piccolo non può più fare la vita che faceva prima!- dice il buon uomo.
– Ma è proprio questo il nodo della questione,- vorrei protestare, e invece sto zitta, vergognandomi
Se una mamma non è pronta a rinunciare completamente alla vita che faceva prima, significa che ha sbagliato mestiere, rimugino tra me. E siccome, nato Alessio, io non riesco a scordarmi di essere anche una donna, oltre che una madre, le cose non possono certo andare bene.
Provo desideri e paure così intensi da risultare inconfessabili.
Perché non ci sono solo i malesseri fisici e la stanchezza, c’è anche il fatto che non sopporto più mio figlio, i suoi pianti, i suoi capricci, la sua continua richiesta di attenzioni. Non ce la faccio più a tenerlo in braccio ore ed ore perché si addormenti, di giorno e di notte. Non ce la faccio a mangiare con lui addosso perché non vuole stare seduto nel suo seggiolone neppure per mezz’ora.
Mi sento davvero un fallimento, soprattutto la mattina, quando vengo svegliata, dopo poche ore di sonno, dalle sue urla impazienti. Mi trascino letteralmente giù dal letto. Rinuncio alla colazione per non perdere tempo a farmi un tè, e a volte rinuncio anche al pranzo. Penso prima di tutto a lui, come immagino sia giusto fare e, quando arriva il momento di occuparmi anche di me, non ho più energie.
Per consolarmi mi ripeto che è solo questione di tempo, che presto le cose miglioreranno, ma non ci credo veramente. Sto lì a fissarmi nello specchio senza riconoscermi, scrutando le occhiaie, lo sguardo spento, scoprendomi improvvisamente più vecchia e stanca, più simile a mia madre che alla ragazza che sono stata.
Prima o poi Alessio comincerà a dormire la notte, racconto al mio scialbo riflesso, smetterò di allattarlo al seno, e lui imparerà a fare il riposino quotidiano come gli altri bambini della sua età. Prima o poi.
Intanto aspetto e cerco di resistere, nascondendo con cura la tristezza e la delusione che provo.
Se sto un pochino meglio, cioè se riesco a dormire cinque ore filate, allora faccio anche uno sforzo supplementare e decido di uscire, tutta ben vestita e pettinata, col mio bimbo nel passeggino, roseo e florido come quello di una pubblicità televisiva.
Di regola riceviamo molti complimenti, e sembra tutto perfetto. Ma è solo apparenza.
L’unico che sa come stavano le cose, in realtà, è Lorenzo. La sera mi vede stanca, sfiduciata, ma evidentemente anche lui pensa che tutto ciò sia piuttosto normale per una neomamma. Mi aiuta come può. Qualche volta di notte si alza per cambiare Alessio, ma non può certo allattarlo al seno. Di giorno poi non c’è mai: del resto uno dei due deve pur lavorare, quindi sono io la prima a giustificarlo.
Capita, più o meno un giorno sì e uno no, che gli telefoni sul cellulare piangendo disperata, perché Alessio non vuole saperne di dormire o perché non ce la faccio più a stare chiusa dentro casa, barricata con un bambino influenzato e nervoso. Ma anche lui come mia madre mi ripete di avere pazienza, di stare tranquilla e serena.
– Serena?!- grido io dentro il telefono, prima di scagliarlo nel vuoto.
– Cerco di tornare presto stasera,- ribadisce lui per consolarmi, quando richiama un minuto dopo, forse allarmato.
In realtà arriva quando deve arrivare, cioè quando fuori è buio, quando la giornata è volata via e non ci sono più tempo ed energie per altro.
Ma quanti mesi sono trascorsi in questo modo? Se ci penso mi sembra un secolo. Un tempo lento e infinito. Un tempo che avrebbe dovuto essere pieno di luce ed io invece ricordo buio come una notte d’inverno. Fino alla sera in cui, improvvisamente, intuii l’origine del problema.
E’ molto tardi, Lorenzo si è addormentato sul divano, Alessio è finalmente nel suo lettino.Per rilassarmi faccio zapping col telecomando. Non amo particolarmente la televisione, ma sono troppo stanca per dedicarmi a un libro. Ad un certo punto vengo incuriosita da un programma televisivo molto noto, a cui partecipavano ospiti illustri, che affrontavano abitualmente temi di attualità. Mi accorgo che parlano della depressione delle neo mamme, di un malessere tanto diffuso quanto nascosto, di una tristezza profonda che io conosco bene. Alzo il volume e mi metto in ascolto. E a questo punto, grazie alla testimonianza di alcune donne, inizio a comprendere che non sono la sola mamma stanca, confusa, impaurita, sulla faccia della terra. E soprattutto che il mio dolore è autentico e degno di cure e attenzioni.
– Non riesco più a tenerlo in braccio,- sta dicendo la donna intervistata.
– Lui è lì nel suo lettino e mi cerca, mi chiama, ma io non riesco a toccarlo. Lo guardo come fosse un estraneo. Come dovessi scegliere tra me o lui per poter sopravvivere.-
Subito dopo, un’altra mamma col viso nascosto, ammette:
– Quando piange per ore ed ore ed io sono sola in casa con lui, mi viene una gran voglia di andarmene via, di sparire lasciando un biglietto di addio e non voltarmi indietro. Gli voglio bene, ma è troppo faticoso per me, forse non sono adatta a fare la madre.-
Comincio a piangere a metà programma, davanti allo sguardo stupito e preoccupato di mio marito svegliatosi a causa dei miei singhiozzi, e vado avanti per un’ora almeno. Non posso trattenermi: tutto il dolore sgorga come un fiume in piena. D’un tratto non mi vergogno più dei miei sentimenti, perché non sono la sola a provarli.
E dopo le lacrime vengono anche le parole. Riesco finalmente a confidare a Lorenzo fino a che punto sono stanca, e quanto mi fa soffrire non poter stare col mio bambino con più gioia e serenità.
Ripeto, come se dovessi convincere il mondo intero, che io amo Alessio, che non ho il minimo dubbio in merito, ma sono troppo esaurita per occuparmene notte e giorno senza mai pause.
– Qualcuno deve aiutarmi, – sussurro con pudore, quasi si trattasse di una richiesta eccessiva.
Eppure non mi importa più di apparire fragile, confusa, incapace di sacrifici e dedizione. Non voglio più essere una mamma perfetta, voglio soltanto poter essere la mamma di Alessio, anche se, per come mi sento, è evidente che non posso farcela.
La cosa che ancora oggi mi stupisce più di tutte, è che la soluzione non era complicata.
Non fu necessario nessun drastico cambiamento, nessuna cura, nessuna dolorosa separazione.
Semplicemente, ma oggi intravedo anche il coraggio di quel gesto, parlai a mia madre della mia stanchezza, delle lacrime, della fatica. E le chiesi di aiutarmi. So che può sembrare strano, ma non lo avevo mai fatto prima di allora.
Così , dopo la nostra intima chiacchierata, e molti inaspettati abbracci, mia madre si offrì di tenere Alessio a casa sua, dalla mattina alla sera, per due giorni alla settimana. Un tempo che poteva conciliare con i suoi impegni senza troppi sacrifici. Un tempo che per me è diventato subito preziosissimo, perché mi ha permesso di riposare, di pensare, di prendermi cura del mio corpo, di fare ordine in casa e nei miei desideri. Ho potuto stabilire delle priorità, dedicare delle ore anche ad altre cose che amo, riprendere i contatti di lavoro. Ho avuto modo di parlare a mio marito di molte cose. E finalmente ho scoperto il piacere di abbracciarlo quando torna a casa la sera, insieme a nostro figlio.
Oggi Alessio ha due anni, è piccolo, ha bisogno di tante attenzioni. Quando andrà all’asilo io potrò ricominciare a lavorare più regolarmente, ed è una cosa a cui tengo molto. Nel frattempo dispongo di due giorni, a volte sono solo due pomeriggi alla settimana, che non permettono di fare molte cose, è vero, ma permettono di scegliere come impiegare quelle poche ore. E questo è già un buon traguardo per una donna che ha voluto, intensamente voluto, di essere anche una mamma.

Alina Rizzi
http://www.segniesensi.it

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