di Angela Diana Di Francesca

Regia: Steven Spielberg
con: Daniel Craig, Eric Bana, Mathieu Kassovitz, Ciarán Hinds, Geoffrey Rush

Munich racconta la vendetta (“Vengeance” è il titolo del libro di George Jonas da cui il film è tratto) seguita al blitz delle Olimpiadi di Monaco nel 1972 ad opera di palestinesi di Settembre Nero che chiedevano la liberazione di loro compagni detenuti in Israele.
L’intervento delle “teste di cuoio” all’aeroporto in cui i terroristi avrebbero dovuto imbarcarsi per l’Egitto portò al conflitto a fuoco in cui persero la vita i 9 atleti superstiti degli 11 presi in ostaggio, 4 terroristi e un poliziotto.
Protagonista del film è Avner (Eric Bana), incaricato dal Mossad di cercare ed eliminare, solo in Europa per motivi di opportunità politica, alcuni responsabili del blitz (ma saranno uccisi anche altri, colpevoli di altre azioni contro Israele).
Spielberg affronta con la passione e la sensibilità che lo contraddistinguono un argomento molto delicato, un problema che aspetta soluzione da quasi sessant’anni, il dramma di due popoli che ognuno a suo modo lottano per la propria patria e per il proprio diritto all’esistenza, ma che, stretti in una spirale di odi, violenze, ingiustizie, vendette, intolleranze, chiusure, ritorsioni, non trovano più una chiave di comunicazione.
Una scena del film, che sfiora un po’ il kitsch, ci offre un motivo di riflessione.
Quando il gruppo del Mossad si trova casualmente insieme a dei feddayn a condividere un rifugio per la notte, uno di loro sintonizza la radio su una musica araba; uno degli uomini del Mossad si alza e sceglie un’altra stazione radio.
L’arabo insiste, i due si fronteggiano minacciosi, finchè l’israeliano gira la manopola e trova una terza musica, fa all’altro un cenno e ne riceve un assenso. Trovato un accordo, i due vanno a dormire.
Non ci sono state parole, solo gesti e segni. Ma la volontà di risolvere il conflitto ha fatto la differenza. Nella realtà della politica il miracolo non c’è mai stato.
Munich è un film d’azione, una spy story tesa e coinvolgente ben supportata dalle prove attoriali, ma è anche un film cbe invita a riflettere, che ci mette a contatto con una delle questioni più scottanti dell’attualità, con le pericolose ambiguità dei servizi segreti, con l’indifferenza o la responsabilità delle nazioni nella gestione di un conflitto che senza un’azione autentica di dialogo non può che evolvere in un’escalation incostrastata che finisce col trascendere i confini geografici e riguardare tutti (v.l’immagine delle Torri Gemelle).
Avvincente e sconfortante, Munich ci imprigiona per più di due ore e mezza in un incubo che segna la sconfitta della ragione e il trionfo di Ananke, del Fato, della violenza ineluttabile della storia.
Il film si connota subito per l’attenzione riservata all’incapacità, o impossibilità, di capirsi, (“capire” è quasi una parola chiave che viene più volte ripetuta emblematicamente fin dalle prime scene), e al rifiuto, sofferto ma “inevitabile”, di dare spazio ai sentimenti umani, alla pietà.
Tutto si compie con l’irrevocabile fatalità della tragedia greca, tragicamente i protagonisti di entrambe le parti esperiscono la comprensione e la misura della propria volontà e l’impossibilità di metterla in atto.
Se il duro del gruppo dice che gli importa solo del sangue israeliano, altri invece sono toccati dalla crudeltà degli atti che la necessità gli impone, e il terrorista di Settembre Nero che spara agli atleti nel flash back finale ha sul viso non l’espressione dell’odio ma quella della disperazione per un evento ineluttabile.
I “nomi da eliminare” sono, nella loro vita quotidiana, persone normali, tranquille, hanno moglie e bambini, sorridono, conversano, scrivono.
Uno di loro, destinato a saltare per aria con l’esplosivo in un hotel -che si chiama Olympic-, scambia col suo assassino battute sui vicini di stanza, e la sua affabilità indifesa fa per un istante vacillare Avner che esita ad accendere la luce per il segnale convenuto.
Zahyd, il primo ad essere ucciso, viene rintracciato mentre sta presentando, a un incontro culturale, una sua traduzione delle Mille e una Notte.
Sembra un uomo mite, spiritoso, un intellettuale gentile, che induce a domandarsi quale insanabile ingiustizia può averlo così profondamente “offeso” da renderlo colpevole di complicità col terrorismo. Tenta, inutilmente, di “ragionare” con i suoi assassini.
E forse non è un caso che sia stata richiamata la storia di Sherazade, una storia in cui la Parola ha scon fitto la Morte, in una realtà che invece sancisce la sconfitta della parola. Qui nessuna parola salva, il mondo è posseduto manzonianamente da una forza feroce e “non resta che far torto o patirlo”.
E come il protagonista del film anche lo spettatore esce dalla sala con un senso di angoscia e di sconfitta.

Angela Diana Di Francesca

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