di Cristiana Bullita

Nell’epoca della cultura mercificata, della triste e strumentale esaltazione dell’homo faber, dell’alternanza scuola-lavoro, della rinuncia a una seria formazione intellettuale a vantaggio di attività varie ed estemporanee, l’individuo risulta sempre più incapace di produrre un pensiero divergente, creativo e critico. Con la conseguente resa al disimpegno etico e alla convinzione, già evidenziata dal sociologo tedesco Ulrich Beck, che i problemi sociali possono essere affrontati soltanto sul piano individuale. Per questo si ricorre disinvoltamente a risorse personali di ogni tipo, ma anche a quelle familiari o della cerchia di conoscenze più o meno fidate. Ecco quindi che per trovare lavoro, per fare un accertamento diagnostico urgente o un intervento chirurgico saltando la fila, per sbrogliare una pratica complessa, si chiama l’amico o l’amico dell’amico. Non si pensa che quelli sono problemi sistemici da affrontare con uno sforzo collettivo e politico. Purtroppo certe soluzioni improvvisate non sottraggono per sempre il singolo ai vincoli del mercato del lavoro, al malfunzionamento della Sanità in affanno o alla pressione di una burocrazia tentacolare.

«Il modo in cui si vive diventa la soluzione biografica a contraddizioni sistemiche».
(U. Beck, La società del rischio)

L’individualizzazione esasperata dell’esperienza quotidiana è una delle sfide del pensiero sociologico contemporaneo. I problemi reali non sono quasi mai soltanto individuali: povertà, malattia, disoccupazione esulano dall’ambiente circoscritto delle difficoltà personali e acquistano lo status di problemi sociali che vanno affrontati a livello dell’organizzazione e del funzionamento delle istituzioni dello Stato. Sempre più spesso, tuttavia, si rinuncia a credere e a lottare per una società migliore, bollando come utopia gli ideali e gli obiettivi universalistici e convertendoli in più modesti bersagli di colore personalistico e utilitaristico.
Sul posto di lavoro, ad esempio, è sempre più diffusa la tentazione di rinunciare alle grandi battaglie di categoria per indirizzare le poche forze residue nella difesa dei propri interessi, che non sono necessariamente quelli del gruppo di appartenenza. Non si partecipa agli scioperi e alle manifestazioni, perché ormai ci si sente completamente estranei a quel fronte comune capace di porsi obiettivi condivisi e di conseguirli. E al contempo magari si contratta col capo per ottenere condizioni economiche e lavorative migliori, ma solo per sé e con pregiudizio di altri.

«Al posto di premi comuni per gli sforzi collettivi di riforma sociale, rimaneva solo un bottino da conquistare a scapito dei concorrenti».
(Z. Bauman, Retrotopia)

Il personalismo ottuso e amorale ricaccia il cittadino dietro l’individuo. È ovunque evidente un deficit di quella che Mills, noto sociologo americano del secolo scorso, chiamava «immaginazione sociologica», ossia la «capacità di connettere questioni private a problemi pubblici, comprendendone le ragioni [Infatti l’immaginazione sociologica] riconduce […] il disagio personale dei singoli a turbamenti oggettivi della società e trasforma la pubblica indifferenza in interesse per i problemi pubblici».
(C. Wright Mills, L’immaginazione sociologica)

Viceversa la tendenza a ricondurre ogni problema a una giurisdizione individuale è sempre più evidente e sempre più rivelatrice della svalutazione degli interessi collettivi, apparentemente in conflitto con quelli del singolo. Chi è in grado di riconoscere la propria condizione come simile a quella di altri, chi dimostra un certo grado di immaginazione sociologica e di empatia, dichiara implicitamente di non voler rinunciare al sogno di una società migliore e si dispone alla cooperazione e al sacrificio condividendo con altre persone progetti e prospettive.

«Nothing is precious except that part of you which is in other people, and that part of others which is in you. Up there, on high, everything is one» (Pierre Teilhard de Chardin).

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