di Letizia Lanza

Nel n. 85 di «Protagonisti» (dicembre 2003), a richiamare la presentazione – avvenuta, non a caso, in data 8 settembre – del libro Ester e Letizia. Memorie di donne bellunesi (a cura di Paola Salomon, con un saggio introduttivo di Maurizia Bordin, edito dall’ISBREC nella collana “Gente (non) comune”), un magistrale intervento di Ferruccio Vendramini, nel lamentare vigorosamente il fenomeno della globalizzazione «che mette in forse la stessa sostenibilità del pianeta a causa della dilapidazione delle risorse» e «tende ad inserirci forzosamente in strutture economiche in cui diventa sempre più difficile la pratica della democrazia, perché sta crescendo una società eterodiretta, che si sposa con un atomismo individualista cui si vorrebbe lasciare solo l’illusione della libertà, ombra platonica» (p. 216) – Vendramini, dunque, ribadisce la necessità, senza dubbio inderogabile, di salvaguardare «un “capitale sociale” inteso essenzialmente sotto il profilo etico, capace di evitare che le reti comunitarie siano narcotizzate e rese silenti» (p. 217). Ciò, inutile dirlo, anche – meglio, anzi e sopra tutto – nell’esplicito appello a «valori che poggiano su una precisa scelta di campo, chiamiamola con il suo nome in chiaro, l’antifascismo, aggiornato nella concretezza quotidiana delle scelte» e naturalmente destinato, oggi, ad «assumere altri significati ed altre forme» (p. 217). Per quanto concerne, poi, il vissuto durante la Resistenza, Vendramini richiama alcune parole di Tina Merlin sul ruolo femminile nella guerra partigiana: «Chi stava sempre allo scoperto nei paesi e per le strade erano le staffette, le informatrici, le sarte che confezionavano indumenti per la guerriglia, le donne che nascondevano e curavano i feriti. Ed erano tante, molte più di quante siano state riconosciute combattenti. Erano una parte insostibuibile dell’esercito della Resistenza» (pp. 214-215). Di qui allora, da tali importanti considerazioni, trae origine questo medaglione (modellato in parte sulla memoria di amiche e parenti) dedicato a Elena Vittoria Bassi (1911-2000) – presenza di spicco nel panorama culturale del Novecento italiano (e non solo), originaria di Mantova ma veneziana d’adozione, libera docente (in Storia dell’Arte Medievale e Moderna) e critica insigne, per anni Direttrice del Liceo Artistico, quindi dell’Accademia di Belle Arti della città già Serenissima (oltre che membro di importanti Istituti e Associazioni: per esempio, la Deputazione di Storia patria per le Venezie – Venezia), tornata di recente alla ribalta in occasione della celebrata mostra canoviana di Bassano del Grappa e di Possagno. Poiché proprio ad Antonio Canova la studiosa dedicò molta parte della vita e dell’acuto talento – tanto da ottenere (ambitissima) la cittadinanza onoraria della stessa Possagno.
Una personalità autorevole, Elena Vittoria Bassi. E acquista anche maggiore spicco se si considera il generoso impegno civile e politico, che la vede prendere parte attiva alla Resistenza nel Veneto: con lo pseudonimo di “tenente Silvio”, negli anni 43-45 fa da staffetta per Giuseppe Fiocco – studioso e uomo di grande levatura, già relatore della sua tesi di laurea a Padova – che si trova rinchiuso nel carcere di Santa Maria Maggiore. E, appunto, all’impegno di Bassi nella Resistenza si lega la mia unica occasione di incontro con lei – al Municipio di Mestre, per l’iniziativa rESISTERE – memoria e vissuto delle donne nella guerra di liberazione (26 maggio 1995), organizzata dal Centro Donna del Comune di Venezia; dalla Società Italiana delle Storiche di Venezia; dall’Associazione storiAmestre; dal Gruppo Mneme di Padova. In questa circostanza Elena offre la sua testimonianza di partigiana, assieme ad altre donne autorevoli (Graziella Bellini, Libertà Spina, Aida Tiso, Francesca Tonetti, Francesca Trentin, Ester Zille). Rivivono, ormai lontane ma costantemente presenti, le sue esperienze di guerra, alle quali si riferiscono anche gli Appunti autografi raccolti nel prezioso volume (1943-1945, Venezia nella Resistenza, pp. 467-475) pubblicato nel 1975-76 dal Comune della città lagunare. Ne cito alcuni brani, dove risento vibrare le sue parole: «Il giro di conoscenze era abbastanza largo e sicuro: ci si comunicavano i problemi: si trovava quasi sempre l’amico influente che poteva intervenire. Bisognava aiutare quelli che dovevano vivere in clandestinità, e mandare aiuti in montagna. Bisognava trovare posti dove si potessero nascondere altri. Tanti posti. Sempre di più. A scuola i ragazzi del Liceo facevano del volantinaggio. Mi portavano delle poesie politico-satiriche. Per un poco le conservavo, poi cercavo di ricordarle a memoria e le buttavo via, perché in casa avevo documenti più pericolosi».
Alcuni ragazzi vengono catturati a motivo del volantinaggio e, tra essi, rimane a lungo in carcere Gianfranco Gramola, di quarta Liceo, figlio di un fotografo di Schio. Rammenta Bassi: «Il ragazzo divideva la cella con un anziano uxoricida; i genitori mi chiedevano di fare qualcosa. Andai dal Direttore del carcere, e gli dissi che entrambi, lui ed io, avevamo cura d’anime, ed entrambi dovevamo educare Gianfranco, e farlo crescere onesto. Perché lo teneva in cella con un delinquente? Mi rispose: “De minimis non curat praetor”».
I ricordi di Elena si fanno via via più personali e pressanti: «Qualche volta mi incaricavano di portare documenti o denaro ai gruppi di terraferma: non volevo sapere che cosa c’era dentro i pacchetti perché avevo paura, se mi prendevano, di essere costretta a parlare. Sono stata fortunata: quando dovevo andare lungo il ponte, fino a Chirignago, erano sempre giornate bellissime. Il partner era avanti un cinquanta passi. Io seguivo, con la borsetta a tracolla, allora di moda. Lungo il ponte, solo qualche pescatore. Di solito, tra andata, sosta e ritorno, arrivava l’ora del tramonto. Era ancora bellissimo, il ritorno. Ma accadeva che a quell’ora qualche fascista o qualche militare in automobile mi offriva un passaggio, impietosito dalla povera donna appiedata. Il partner continuava a camminare, pian piano… Mi avevano portato una macchina da scrivere Olivetti, modello 1911, usata, naturalmente. Dovevo trascrivere i verbali delle sedute dei comandanti militari del CVL, quelle che facevano a casa di Don Manfrin. Non sapevo scrivere a macchina. Con un dito solo, ci volevano due ore ogni pagina. Come si facesse a mettere bene inquadrate le somme, era un mistero. Mi faceva rabbia un tenente Silvio, che ogni tanto era nominato, perché aveva dato delle informazioni interessanti. Erano le cose che sapevo anch’io, e credevo che fossero segrete. Ma se le sapeva anche questo tenente Silvio, non erano più segrete. Poi, seppi che il tenente Silvio ero io. Mi indicavano così, perché dei sei rappresentanti militari uno solo conosceva il mio nome, e sapeva che trovavo i posti delle riunioni ecc. Le riunioni del CLN regionale invece talvolta le facevano da me, all’Accademia, in biblioteca, che era anche la sala dove facevo lezione. Tiravo giù dei libri, dicevo ai bidelli che dei professori avevano bisogno di consultarli. Io stavo in una camera vicina, finché se ne andavano. Qualche volta erano un poco improbabili, come aspetto. Con occhiali così neri, che più neri non si può. Il bidello, vecchio: “Ma quei professori, xei professori?”».
E ancora – facendosi le memorie sempre più vive e commosse: «Il 28-29 aprile piovigginava. Molto presto Cavinato mi chiamò dai Colagrande. Voleva parlarmi. “Siamo in prefettura da ieri”, diceva. “Portami quelle carte e un bracciale con la bandiera inglese per il plenipotenziario che è già arrivato”. “E come è la bandiera inglese sul bracciale?” “Mah! Arrangiati un po’”. Mio padre consulta libri. Mia sorella trova nastri di vari colori e cuce a macchina la bandiera inglese sul bracciale. Ma sulle Zattere non si poteva camminare. Le chiatte della kriegs-marine dal canale della Giudecca sparavano a zero sulle case e sui passanti. Una signora che era da me avrebbe voluto, incautamente, esporre la bandiera al nostro balcone, ma un soldato tedesco, appostato dietro un alberetto alla punta della Marittina aveva gridato forte: “Raus!”. Come è grande, adesso, quell’alberetto. Ci mettono sotto le automobili perché fa tanta ombra. Il padrone di casa di Cavinato, di anni ottanta, il signor Vismara, stava alla finestra a guardare cosa succedeva: era stato mitragliato. Era morto dissanguato; chi lo poteva soccorrere, che non ci si poteva muovere? Consulto con il giovane Colagrande. “Può andare per i tetti, e arrivare agli Ognissanti”. Casa nostra continuava, dietro le Zattere, con un magazzino basso, lungo quanto una lunga calle. Il percorso non era difficile. Giorgio aveva provveduto a far mettere una scala a pioli all’estremità del magazzino: scesa, ho attraversato una casa e sono uscita agli Ognissanti. Dei fascisti sparavano sul ponte dell’Accademia dai tetti vicini. Un mio scolaro di Liceo (neanche sapevo che fosse un resistente) aveva in mano una vera bomba a mano. Eugenio De Luigi, con quegli occhi celesti da bambino, mi accompagna di là dal ponte, con la bomba».
Come dicevo prima, quello al Municipio di Mestre fu il mio unico incontro con Bassi: mi colpì il suo tratto austero, di non immediata affabilità – anche a motivo, forse, di una qualche timidezza. Un’impressione indimenticabile, la mia: un’impressione di serietà e di sussiego, d’un subito mitigata dalla dolcezza del sorriso e dalla chiara dirittura dello sguardo; una severità pensosa e schiva ma al tempo stesso aperta e serena; un rigore innato (ineliminabile) e tuttavia, per dir così, addolcito dalla disponibilità. Un’impressione che, in seguito, sarà confermata dalle testimonianze di familiari e amici di Elena: dalle quali emerge il ritratto di una donna attiva e energica; disinteressata e generosa; burbera all’apparenza, ma di fondo disponibile, affettuosa, di piacevole frequentazione. Sempre tuttavia esigente, critica, ironica (sopra tutto, autocritica e autoironica). E intransigente, aliena da condizionamenti o accomodamenti, poco diplomatica, schietta tanto da non risparmiare le battute mordaci – veri strali di verità.
Una degna persona, insomma, Elena Bassi – oltre che studiosa integrale. Costantemente presa dall’attenzione (e dal rispetto) per il documento, la testimonianza orale e scritta: donde la cura, minuziosissima, con cui conserva ogni genere di scrittura, dai testi “ufficiali” alle cartoline alle lettere private: per esempio, toccanti, quelle di Gramola – detenuto, come ho già detto, nel carcere veneziano. Senza intervenire su eventuali errori (sviste?) di grafia, ne riporto taluni brani: anzi tutto, commossi, quelli intesi a esprimere la gratitudine per i doni ricevuti: «Gentilissima Signorina, non so come ringraziarla per quello che ha fatto per me. Rifuggo dalle solite frasi convenzionali, ma Le assicuro che Le sarò riconoscente per tutta la vita. Purtroppo malgrado i molti passi fatti non sono uscito da questo triste luogo. Ma non per questo mi avvilisco. Una sola cosa mi fa soffrire: quando penso ai miei compagni che sono ‘lassù’ a combattere realmente per la nostra causa, allora li invidio e soffro. Questa impotenza, questo senso di inutilità, che opprime lo spirito e la carne qui, è il supplizio più feroce che si possa infliggere ad un’uomo. Ma da ogni male, da ogni dolore bisogna sapere trarre il massimo bene possibile. E durante questi lunghi giorni passati assieme a gente priva di qualsiasi moralità e senso di responsabilità, ho imparato molto. Fuori, al contatto solo con gente perbene, non avrei dedotto certe conclusioni, che qui sorgono spontanee e urgenti. Come sa ero di tendenza piuttosto capitalista, qui ho cambiato, e penso che fino a quando non si solleverà la massa ad essere cosciente di quello che effetivamente è non si potrà mai avere ordine e pace. Il capitale per quanto dotato delle più buone intenzioni, non potrà mai fare questo. Sapesse i primi giorni come mi trovavo a disagio in mezzo a degli esseri che guardavano con ammirazione al grande ladro e con invidia al rapinatore a mano armata. Era una situazione molto interessante dal lato psicologico. Era un’incessante fluire e rifluire di compassione e di ribrezzo, ma ora tutto è passato; ho fatto l’abitudine ed ho imparato da quale lato prenderli per condurli ad un po di ragione. Molti, però, ho trovato che sono qui per la situazione nella quale li ha spinti il passato regime. Non posseggono nessun indirizzo morale, e vivevano in condizioni finanziarie tremende. E in seguito, quando si potrà guardarsi attorno, bisognerà che il governo guardi molto seriamente al fattore educazione. Credo che il principio del benessere di una nazione, e la tranquillità del suo popolo siano basti sull’educazione che viene impartita, prima nella scuola, poi nell’ambiente nel quale l’uomo vive… ».
Parole generose, importanti, nelle quali Bassi non può che ritrovarsi appieno. Parole che, a dispetto della sofferenza, s’illuminano di speranza. Scrive infatti più oltre Gramola: «L’impossibilità di muoversi e di respirare un po di aria buona e libera, infiacchisce i muscoli e ci rende indolenti. Nonostante tutto i nervi sapranno al momento buono fruttare quanto i muscoli. Il mio morale è ottimo, specie da quando ho ricevuto l’approvazione da persone autorevoli sul mio operato… Non si dimentichi, La prego, dei miei compagni. Cerchi di tenerli su, spero di averli con me, come mi hanno promesso, quando riusciro ad uscire e a compiere il mio dovere di uomo e di cristiano… Coraggio e avanti sempre finché non si arriverà alla meta agognata… ».
Densa di significati è pure un’altra lettera del ragazzo prigioniero: «Gentilissima Signorina, La ringrazio per i colori e l’acquaragia e per tutte le altre cose che gentilmente mi ha inviato. Ringrazi le fonti di provenienza, possibilmente però vorrei non sfruttarle troppo. Ieri ho passato la visita per la Germania, mi hanno scartato per palpitazione cardiaca. Ho accusato esaurimento nervoso avuto 2 anni fa, e asma del fieno fin dalla nascita. Con un po di buona volontà da parte dei miei polmoni tutto è andato bene. Così spero di avere guadagnato almeno un paio di settimane. Ora sono al transito nella cella N 13. Finalmente dopo tre mesi ho potuto vedere un po di mondo. Poter vedere, sia pure da una finestra con le sbarre, tetti e qualche finestra è un’emozione dopo tanto tempo. Confesso che nel primo momento un nodo mi serrava la gola… In questi giorni ho lavorato molto. Una valanga è uscita fuori con l’unico scopo di alleggerire lo spirito. Passato questo primo impulso mi sono rimesso a lavorare come il mio solito, adagio e con attenzione. Ho fatto gli schizzi della cella e dei cubicoli dove prendiamo l’aria… Sono in pensiero invece per gli altri studi. Non riesco ad applicarmi, il pensiero non si ferma su quel che leggo ma sfugge continuamente. Qui i pensieri divengono diavoli, affluiscono alla testa in maniera vertiginosa ed è difficile incanalarli e dirigerli. Ma, quando mi rimetterò a studiare dovrò ricominciare da principio; specie in matematica non mi ricordo niente… Spero di ritornare presto alla vita civile, la speranza qui aumenta giorno per giorno. Si canta da ogni cella e noi pure salutiamo il giorno con l’inno della futura giustizia e della più giusta libertà. Forte della mia fede e speranza la saluto e la ringrazio… Gianfranco detenuto N 8769. P. S. Oggi è venuta la mamma ma non ho fatto in tempo ad avvertirla di mandarmi dei frutti. Se non le porta disturbo la prego di inviarne poiché l’acqua è cattiva e puzza e per levare la sete non ci sono che quelli».
Si arriva così all’ultima lettera di Gramola – non più dal carcere. La data è il 14-5-1945, il foglio su cui scrive il giovane reca l’intestazione Corpo Volontari della Libertà aderente al Comitato Liberazione Nazionale – Arsiero: «Egregia signorina Elena, colgo l’occasione di un nuovo amico che si reca a Venezia, per inviarle un saluto festoso. Fin da questo inverno mi trovo nelle formazioni della Brigata Pasubiana, dove ho trovata la possibilità di sfogare tutta la mia rabbia sia contro i tedeschi, che i fascisti. Non nego che la fortuna ha contribuito moltissimo sia a mantenermi in vita che per farmi compiere il mio dovere. Ora mi trovo mobilitato e sono presso il comando di Brigata. Non vedo l’ora però di ritornare ai miei studi e di venire a Venezia… ».
Intensa commozione, superfluo dirlo, suscitano questi stralci. I quali, se da un lato offrono una testimonianza del nobile impegno di Bassi (e degli antifascisti lato sensu), dall’altro lato, se necessario, confermano – e cito di nuovo le parole di Ferruccio Vendramini – «l’importanza del racconto di vita tramite il ricordo scritto», dunque l’opportunità di dare spazio al «racconto di persone che riflettono situazioni comuni, e proprio per questo diventano preziosi per definire un quadro più reale e articolato della resistenza, certamente meno retorico» (art. cit., p. 214).

Letizia Lanza

Categorizzato in: