di Maria Antonietta Pirrigheddu
Scrivere degli angeli, e di un angelo in particolare, può sembrare qualcosa di molto fantasioso. Chi mai potrà comprendere un essere tanto diverso da noi, del quale si dubita perfino dell’esistenza? E che si potrà mai dire di un essere che sfugge ai nostri sensi?
Eppure se fin dall’antichità più remota si nominano gli angeli, e addirittura si descrivono le loro funzioni e caratteristiche, qualche motivo c’è. E se all’uomo di oggi è impedito, se non in casi eccezionali, di entrare in contatto sensibilmente con loro, forse non è sempre stato così. Anzi, tutto ci fa pensare che gli uomini di un tempo fossero in grado molto più di noi di percepire e interagire con creature di altri piani. Creature più o meno evolute che a miriadi abitano universi paralleli, fatti di materia meno densa, dove talvolta riusciamo a penetrare.
Dunque sarà proprio rivolgendoci alle tradizioni antiche che potremo cominciare a capire qualcosa di coloro che abitano i Mondi dell’Oltre, cercando però di sbarazzarci di tutte le aggiunte posticce, prodotto di immaginazione e opinioni personali.
La nostra cultura religiosa non ci viene in soccorso in questa impresa, poiché solo tre sono gli angeli di cui permette di ricordare il nome: Michele, Gabriele, Raffaele. Tutti gli altri sono stati relegati, da qualche secolo, nel limbo della dimenticanza. Ma nei tempi passati era diverso. Fino all’anno 745, ad esempio, si veneravano sette arcangeli; le loro immagini erano visibili in molte chiese e i loro nomi scolpiti negli altari. Ma un bel giorno papa Zaccaria si alzò col piede sbagliato e, nell’intento di impedire riti di cui poco capiva, e nei quali temeva ci fosse lo zampino del demonio, decise che da quel momento in poi non si sarebbe più potuto pronunciare alcun nome angelico, se non i tre menzionati nella Bibbia. Proibizioni che furono consolidate dal Concilio di Aquisgrana nel 798, nonostante si faccia cenno a sette arcangeli sia nel Nuovo che nell’Antico Testamento.
Nello stesso modo Madre Chiesa ha messo fuorilegge altre importanti tradizioni e insegnamenti tramandati dall’antichità, etichettandoli come eretici e costringendo i fedeli a rivolgersi altrove per colmare i vuoti lasciati.
Il tentativo di papa Zaccaria, però, era destinato a fallire: il popolo seguitava a venerare i propri angeli, che considerava intermediari più potenti – e disinteressati – dei sacerdoti. I sette nomi continuarono ad essere tramandati, seppur di nascosto, finché non tornarono ufficialmente alla luce qualche secolo dopo.
Tra essi vi è quello dell’arcangelo Uriel.
Dall’ebraico ‘Uriy’el. La radice Ur indica il fuoco, mentre la terminazione El, come sempre, sta per “Dio”. Perciò la traduzione letterale è “Luce di Dio” oppure “Dio è la mia luce”. Anche nella lingua degli egizi U-Ra-El ha lo stesso significato, poiché U indica lo spazio e Ra è il sole. Quindi: Spazio-Sole-Dio. La luce di Dio che si spande nello spazio. O anche: “La folgore di Dio”.
Eppure l’Arcangelo che presiede all’elemento Fuoco è Michele, così come a Gabriele appartiene l’elemento Acqua e a Raffaele l’elemento Aria. Uriel, invece, governa l’elemento Terra. E’ lui, infatti, che sostiene le realizzazioni nella materia.
Lo sapeva bene Leonardo, che lo raffigurò nel suo suggestivo dipinto “La Vergine delle rocce”. Uriel è la roccia della vergine, la terra con cui plasmiamo le nostre opere. Che saranno buone opere se verranno realizzate avvalendosi anche dell’acqua di Gabriele, dell’aria di Raffaele, del fuoco di Michele. Le nostre azioni concrete (terra) daranno buon frutto se accompagnate da sentimenti elevati (acqua), da pensieri costruttivi (aria), dall’intenzione di esprimere la parte più alta di noi (fuoco).
La Ur di Uriel è ciò che alimenta la volontà umana, senza la quale nessuna evoluzione è possibile; senza la quale ogni intento, ogni sogno, ogni desiderio resta fine a se stesso e non prende forma. Ecco perché Uriel è chiamato “custode del futuro”. Il futuro, in buona parte, ce lo costruiamo noi. La buona riuscita o meno dei nostri sforzi è altro discorso, ma ogni realizzazione passa attraverso la volontà di imporsi, la capacità di esprimersi, la voglia di creare. Uriel stimola a fare, a progettare, ad attuare, fornendo abbondanza di energie e ispirando idee trasformatrici.
Viene raffigurato con in mano un libro o un rotolo di papiro: sono i simboli della sua saggezza che guida l’evoluzione.
La saggezza viene dalla terra: è la natura che mostra e insegna cosa realmente significhi costruire, generare e rigenerarsi. L’uomo che sa osservare apprende e comprende. Comprende che tutto è creare, ricevere, dare; che la conoscenza ha senso solo se conduce alla saggezza; e che quest’ultima consiste semplicemente nella capacità di creare cose belle, ricevere cose benefiche, offrire cose utili. Questo significa essere “seme buono”.
La luce del nome di Uriel rappresenta la potenza divina, che si manifesta nell’uomo come chiarezza della coscienza e calore del cuore: i due elementi che, attraverso realizzazioni materiali e spirituali, conducono all’evoluzione. In questo senso la Terra feconda il Cielo. Non è un caso se per gli antichi egizi la terra era maschile e il cielo era femminile.
Secondo la tradizione Uriel sta a guardia di uno dei cancelli dell’Eden, impugnando una spada fiammeggiante. Cosa rappresenta questa immagine?
Letteralmente Giardino dell’Eden significa “il recinto che racchiude la dimensione del tempo presente”. Diversamente da quanto si pensa, quindi, si riferisce a quell’arco di tempo della nostra vita che trascorriamo qui, sulla terra. Una terra che abbiamo avuto in dono come luogo di grande bellezza e abbondanza, e che abbiamo reso invivibile. Determinando così la nostra cacciata dall’Eden. O meglio, ci viviamo ancora dentro, ma non siamo più in grado di riconoscerlo: sia perché l’abbiamo deturpato, sia perché siamo ciechi, e cerchiamo sempre altrove il senso e la sacralità delle cose.
Ovviamente questa non è l’unica spiegazione del mito dell’Eden; ma già approfondire questi concetti – e soprattutto applicarli a livello singolo e globale – ci aiuterebbe a fare un gran passo in avanti.
Che cos’è dunque la spada brandita dall’angelo che custodisce il Giardino? Non è altro che la nostra capacità di giudizio. Un ammonimento a non andare oltre ciò che ci compete, ma anche a non depredare ciò che non ci appartiene, a non reclamare ciò che non possiamo avere. L’Eden è un luogo in cui si deve avere la consapevolezza del limite, e non solo in senso materiale.
Quanto ai limiti in se stessi, è proprio nel cercare di superarli che si può migliorare. A volte quelli che ci appaiono i limiti più insignificanti sono proprio quel che ci insegna a vivere. Ma migliorarsi non vuol dire diventare ciò che non si è: con questa pretesa ci si rovina la vita e si danneggiano gli altri. Una mela non potrà mai diventare una noce di cocco, per quanto possa sforzarsi.
Forse dovremmo riflettere più a fondo sul concetto di seme.
A ben pensarci il seme si regge su un perfetto equilibrio: da una parte accetta nel modo più assoluto i limiti di ciò che è – altrimenti non riuscirebbe nemmeno a germogliare; dall’altra spacca la frontiera della propria buccia ed erompe all’esterno, diventando molto più di quanto si potrebbe sospettare. Così è l’uomo. Se giunge a conoscere la forza prorompente che si cela al suo interno, i suoi apparenti confini esplodono; ma se pretende di divenire ciò che in realtà non è, rinsecchisce e resta sterile.
L’essere umano non riesce più ad entrare nel Giardino dell’Eden perché non è capace di riconoscere la propria divinità interiore: essa è troppo grande per i limiti della sua mente e del suo ego. Ma se la paura di essere troppo grandi presuppone la consapevolezza di essere comunque qualcosa, la paura di essere troppo piccoli porta al desiderio di essere grandi, ed è proprio qui che ci traviamo.
L’uomo porta in se stesso la spada. I due fili di lama raffigurano la doppiezza del suo modo di vedersi, che oscilla tra la paura del nulla e la paura del troppo. Una doppiezza che si riflette nell’ambiguità dell’atteggiamento e delle azioni. Così, intimorito dalla spada impugnata dall’angelo dentro di sé, impedisce a se stesso di coltivare il proprio Eden. Accecato dalla spada fiammeggiante dell’angelo al di fuori di sé, non è più in grado nemmeno di entrarci.
Uriel è il protettore particolare di tutta la terra e di ogni sua creatura. È portatore dell’energia vitale che informa il nostro pianeta, grazie alla quale ogni seme germoglia e produce; ma sorveglia anche il seme delle azioni umane. Ogni gesto, ogni parola, ogni progetto, ogni modo di essere e di pensare si comporta esattamente come un seme, e prima o poi darà frutto – o produrrà spine. Ecco perché Uriel viene definito “l’angelo del karma”.
Non è vero però che governi le forze che presiedono ai cambiamenti planetari, come talvolta si dice: questo non è suo compito. I cambiamenti verso cui spinge sono quelli che avvengono nella coscienza e nella mentalità dell’uomo, nel quale depone il germe di una consapevolezza più elevata. Né si occupa di chiaroveggenza e profezia. Quanto al diffondere la conoscenza di Dio – pure questo gli viene attribuito – , non è una sua funzione specifica: tutti i grandi angeli e una miriade di altri esseri ci guidano verso la comprensione delle cose più alte.
Uriel rappresenta piuttosto la coscienza globale della terra, alla quale stiamo cominciando ad aprirci. Una coscienza inclusiva, di strette relazioni e correlazioni, verso la quale abbiamo bisogno di essere guidati affinché possa essere non solo un’utopia ma qualcosa di concretamente vissuto. Ecco perché il suo ruolo è fondamentale in quest’epoca di veloci mutamenti, in cui l’uomo oscilla tra l’autodistruzione e la trasmutazione in qualcosa di più luminoso.
Chi, esplorando i propri limiti, scopre di essere più di quel che pensava, e capisce di avere più di quanto immaginava, non può tenerlo per sé. Uriel, l’arcangelo della terra, sostiene la condivisione, la crescita e l’armonia, incoraggiando l’essere umano a portare alla luce i tesori sepolti dentro di sé per contribuire anch’egli all’evoluzione del pianeta.
Maria Antonietta Pirrigheddu
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