viol14 - VIOLENZA DI GENERE APPELLO PER UN CODICE ETICO DEI GIORNALISTI

Un codice etico per utilizzare nel linguaggio giornalistico termini rispettosi della dignità della donna, evitando stereotipi che possano condizionare l’opinione pubblica. Questa la proposta avanzata dalla Commissione pari opportunità del Comune di Capannori ai e alle rappresentanti dei mass media locali intervenuti ieri sera al polo culturale Artémisia per l’incontro Vittime colpevoli: la violenza di genere nella cronaca nera. Un dibattito, introdotto dall’assessora alle pari opportunità, Leana Quilici, e coordinato da Laura Gianni di Lucca in diretta che ha coinvolto i giornalisti e le giornaliste impegnati ogni giorno a raccontare i fatti della società: Adriana Terzo di GiULiA, la rete nazionale delle giornaliste unite libere autonome, Egidio Conca di Noi tv, Nadia Davini de Il Tirreno, Brunella Menchini de LoSchermo.it, Enrico Pace di Lucca in diretta, Lodovico Poschi Meuron di DìLucca e Giulio Sensi di VolontariatOggi.
Dalla giornalista freelance, attualmente collaboratrice de Il Venerdì di Repubblica sono arrivate alcune indicazioni di merito sulla trattazione dei fatti di cronaca nera riguardanti la violenza di genere: “Troppo spesso – ha detto – si tende ad usare un linguaggio che tende a giustificare i responsabili di omicidi di donne, che spesso arrivano alla fine di un lungo processo di vessazioni e di violenze di altro tipo. Quando si dice “l’ha uccisa per gelosia” o “per troppo amore” in qualche modo si tende a guardare il fatto più dal punto di vista maschile che femminile, senza rendere appieno la gravità di un fenomeno, come è quello del femminicidio, i cui numeri sono in preoccupante aumento nel nostro paese. Bisognerebbe che i giornalisti, che svolgono un servizio pubblico, oserei dire una missione, mettessere attenzione nella descrizione dei fatti senza entrare in particolari che scavano nell’ambito della privacy o delle abitudini sessuali delle donne vittime di reato. I femminicidi non hanno nula a che fare con il sentimento e l’utilizzo di termini appropriati permetterebbe di far emergere tutto il dramma di un fenomeno in espansione e, magari, suscitare una maggiore attenzione al fenomeno”. Un tema, quelo dell’utilizzo di un linguaggio appropriato, condiviso da tutti i giornalisti presenti ed estendibile anche alla trattazione dei fenomeni della migrazione e dell’integrazione e delle “minoranze” in genere, siano esse di razza, religione o orientamenti sessuali. Con la necessità, però, del coinvolgimento dei lettori. Perché se da una parte il giornalista deve effettuare una scelta sui termini da utilizzare e sul modo di raccontare delle storie, come ricorda Giulio Sensi di Volontariato Oggi, dall’altra l’utente del prodotto giornalistico deve essere in grado, o deve essere messo in condizione, di decidere su qyale mezzo e su quale testata orientarsi anche per le scelte fatte nell’utilizzo delle terminologie appropriate. Magari anche con l’intervento di quegli organismi che, almeno fino ad ora, sono preposti alla tutela del diritto ad informare ma anche a quello di essere informati, come l’Ordine professionale dei giornalisti e il sindacato.
Dalla commissione pari opportunità del Comune di Capannori, comunque, è partito un appello, cui tutti si sono dichiarati pronti a collaborare: “Trascurare la natura non neutra del linguaggio – si legge nel testo – significa sostenere una cultura incapace di mutare punto di osservazione di cronaca che viene raccontato: sia che coinvolga donne, bambini, anziani, persone con disabilità, omosessuali o immigrati. Chiediamo alle giornaliste e ai giornalisti della provincia di Lucca di aprire una riflessione all’interno delle redazioni sul linguaggio giornalistico, in modo da realizzare concretamente le raccomandazioni della Federazione Internazionale dei giornalisti per l’informazione sulla violenza contro le donne, nonché le linee guida espresse nella lettera ai direttori e alle direttrici delle testate ed emittenti redatta dall’Ordine dei Giornalisti del Trentino-Alto Adige, già accolta il 4 agosto scorso dal Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti della Toscana”.

Qualche dato
Il Rapporto tematico Onu sugli omicidi basati sul genere, presentato lo scorso 25 giugno a Ginevra dice che in Italia nel 2011 sono morte 127 donne (per il 2012 si è già superata la soglia dei 100 femmicidi). Di questi omicidi, 7 su 10 sono avvenuti dopo maltrattamenti o forme di violenza fisica o psicologica. Il 76% delle violenze nel nostro Paese avviene tra le mura domestiche a opera di ex partner, mariti, compagni o persone conosciute ed è la causa del 70% dei femminicidi.
Eppure, solo il 18,2% delle vittime considera la violenza domestica un crimine, mentre per il 36% è un evento normale. Solo il 26,5% delle donne considera lo stupro o il tentato stupro un crimine. “Parlare di una violenza che le stesse vittime stentano a riconoscere come tale – ha detto Laura Gianni nell’introduzione – significa parlare di un problema che è innanzitutto culturale. Quella di genere è infatti una violenza che affonda le radici nella mancata percezione da parte dell’opinione pubblica della gravità e della specificità del fenomeno, troppo spesso destinato a rimanere chiuso tra le pareti domestiche. E come si afferma nel Rapporto Onu che ho citato all’inizio, i mezzi di comunicazione sono definiti parte in causa nell’alimentare stereotipi e pregiudizi rispetto alla violenza di genere.
Sotto accusa è la narrazione talvolta poco corretta che viene fatta di casi di violenza sulle donne. Su tutti un esempio: ogni volta che viene preferito al termine femminicidio, categoria criminologica che indica ogni forma di discriminazione e violenza commessa ai danni di una donna in quanto tale, la più generica espressione omicidio, viene privata della propria identità e specificità la violenza di genere. Non ne viene riconosciuta a pieno l’esistenza, sminuendone così la gravità e rischiando di comprometterne la percezione collettiva. Della violenza di genere non si parla abbastanza, dunque. O meglio, se ne parla in maniera distorta. Il rischio è che i media rinuncino così al loro importante ruolo sociale, politico e culturale: quello cioè di portare all’attenzione di opinione pubblica e istituzioni il fenomeno in questione, contribuendo alla presa di coscienza del problema e, quindi, a una sua possibile risoluzione”.
Da Capannori un appello perché non sia più così. E che sia l’occasione per parlare della nascita di un codice etico, simile alla Carta di Roma, per la trattazione della violenza di genere o di un osservatorio locale per la buona informazione? Qualcuno lo auspica. Il primo passo, comunque, è stato fatto. (Sabato, 27 Ottobre 2012, Enrico Pace)

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