fiaba per piccoli e grandi
di Luisa Caeroni
“Cavolaccio, che staffilata!” Spaventapasseri era proprio arrabbiato. Ne avesse almeno due di gambe; ma quel paletto infilato per terra costituiva l’unica sua possibilità di stare in piedi.
“Con tanto posto al mondo, proprio qui vicino a me dovete venire a giocare! E per giunta mi arriva sempre la palla addosso! Bei mascalzoni.”
I ragazzi non gli davano peso, anzi lo apostrofavano sempre “gamba di legno”.
“Nessuno più insegna l’educazione in questo paese? Alla prima occasione ve la insegno io l’educazione! Vi farò sentire io com’è tosta questa gamba di legno.”
Spaventapasseri era nuovo del posto e non riusciva a tollerare tutta quell’irruenza e quel baccano proveniente dal prato vicino che inesorabilmente si propagava nel campo di sua pertinenza. Aveva dovuto accettare quel lavoro per non aver trovato di meglio. Lì, impalato a controllare che nessuno danneggiasse le coltivazione tutt’intorno. Sapeva che aveva il compito di allontanare gli uccelli o altri animali selvatici, ma non immaginava la presenza di quei mocciosi. Non li aveva mai frequentati lui i bambini e mal sopportava la loro veemenza. In qualcosa aveva ragione, perché quando gli passavano accanto, non gli risparmiavano una piccola molestia, come fargli volare via il cappello o appiccicargli il chewing-gum sul paletto o tirargli una manica; insomma ne inventavano sempre una nuova pur di irritarlo. Il poverello ne aveva di dispetti da elencare! Li teneva lì, tutti in testa per potersi vendicare appena possibile.
Quando arrivò la fine dell’estate, i bambini diradarono i loro giochi all’aperto e Spaventapasseri si accorse che tutto sommato quei piccoli terremoti gli riempivano la giornata. Senza di loro si annoiava a morte. Piano piano prese ad indulgere su tutto ciò che facevano: erano bambini, dovevano pur sfogarsi in qualche modo. Sopportò in silenzio le pallonate, le dispettose manomissioni del suo abbigliamento e quant’altro inventassero per divertirsi alle sue spalle. Incominciò a conoscerli bene, ad apprezzarli, a chiamarli per nome, ad incitarli al gioco.
Con gli uccelli invece non era accondiscendente. Quando si azzardavano a beccare nel campo, li scacciava in malo modo. Specie le cornacchie: sempre lì, a svolazzare con apparente indifferenza, pronte ad approfittare di una sua minima distrazione.
“Via, via; qui non c’è niente da mangiare! Andate a lavorare anche voi come faccio io, brutti uccellacci neri, o tornate da dove siete venuti”, gridava con asprezza. Gli uccelli rispondevano con gracchiate offensive e si allontanavano.
Venne l’autunno e il freddo iniziò a farsi sentire con molto anticipo. Spaventapasseri ebbe un periodo di crisi. Si rese conto di essere solo, di non aver amici e i ragazzetti, che davano un senso alla sua vita, non venivano quasi più al campo.
Passò del tempo, l’inverno arrivò con tutte le afflizioni che gli erano consone. Spaventapasseri, rinsecchito nei sui stracci ammantati di galaverna, cercava di consolarsi con l’idea che prima o poi sarebbe tornata la primavera e avrebbe rivisto i suoi ragazzi giocare nel campo accanto al suo. Certo ora, avvolto in quell’abito luccicante di brina avrebbe fatto la sua bella figura, invece non c’era nessuno ad ammirarlo, anche la nebbiolina lo nascondeva agli occhi dei pochi passanti.
Ogni giorno, nella speranza di essere udito chiamava a squarciagola:
“bambini, ragazzi, fanciulli, amiciiiiii…”
Nulla, per un lungo periodo, nulla.
Spaventapasseri decise allora di stringere amicizia con qualcuno che era solito passare di lì, accontentandosi di chiunque fosse disposto a condividere un po’ di tempo con lui. Vide una cornacchia volare poco lontano e la chiamò:
“Eiiih, cornacchia, bellaaa…, vieniiii…, ho qualcosa da mangiare per te!”
L’uccello non volle credere alle sue orecchie: Spaventapasseri lo invitava a mangiare! Era di sicuro un tranello, e si allontanò velocemente. Il poveretto ci restò male e dopo altri tentativi andati a vuoto, si rese conto che per avere amici non basta darsi da fare all’ultimo momento, ed egli non aveva fatto mai niente in precedenza in favore degli altri. Scacciò ogni rimorso giustificandosi: – ho dovuto lavorare sodo io, non sono uno che se la gode da mattina a sera!- e si consolò nella convinzione che alla fine sarebbero arrivati i bambini.
In quel contesto di terribile solitudine i suoi panni si afflosciavano sempre più; la sua mente inerte per mancanza di lavoro a causa della sterilità delle zolle fondeva i pensieri rendendoli un pasticcio vomitevole.
Una mattina, al risveglio, dopo una notte offuscata dal deperimento, aprendo gli occhi si accorse che tutt’intorno era ammantato di bianco. “La neve, ecco la neve, forse l’inverno se ne andrà presto.” Alzò gli occhi verso il sole: la montagna di fronte ostentava il suo candore e lo scialle azzurro che il cielo le concedeva spesso, le dava una regalità mai riscontrata prima. Una roccia spuntava da sotto la cima come un diamante che brilla sul decolleté di una fata.
Quella visione fantastica e il calore del sole rigenerarono Spaventapasseri. “E’ bello questo mondo” si disse. “Anche quando sembra che tutto sia contro di te arriva sempre qualcosa che ti fa stare meglio. Forza Spaventapasseri!!!”
Quella mattina il sole fu prodigo con lui: gli asciugò i panni addosso e gli infuse un tepore che riuscì anche a insinuargli sentimenti di tenerezza, mentre un volteggiare di uccelli allietava con piacevoli gorgheggi il paesaggio tutt’intorno. Più tardi, inaspettatamente, un vociare festoso ruppe l’atmosfera impregnata di gustosi silenzi. Una frotta di ragazzini accorreva festosa violando lo statico biancore del manto nevoso fino a prima immacolato.
I miei bambini! I miei bambini! Spaventapasseri riprese colore e si immerse nei giochi dei suoi piccoli costruendo con loro i pupazzi di neve. Dall’alto della sua gamba di legno impartiva consigli, come un vecchio che vuole trasmettere le sue conoscenze illudendosi di essere ascoltato. I bambini battevano i cumuli di neve con le manine arrossate dal gelo e forgiavano pupazzi contendendosi i dettami della creatività che ciascuno di loro possedeva. Qualcuno suggerì di staccare un bastone dallo spaventapasseri perché le braccia del pupazzo di neve reggessero meglio, ma poi ciò non accadde per problemi di altezza e Spaventapasseri si mantenne intatto. Grandi sospiri di liberazione emise quando i ragazzi rientrarono alle loro case.
Presto la neve se ne andò, così come era venuta e anche i bambini scomparvero. Spaventapasseri aspettava la primavera. Passò un lungo lasso di tempo, il sole scaldava la terra ogni giorno di più, ma dei bambini niente, nemmeno l‘ombra. “Bambini, ragazzi fanciulli, amiciiiii”, urlava da mattina a sera e non capiva il perché di quella diserzione prolungata.
In una mite giornata di sole, di quelle che ti fanno odorare i profumi intensi ed indistinti della natura che riapre le sue braccia al mondo, di quelle che prepotentemente irrompono nell’animo per riecheggiare sentimenti d’amore, successe quello che non era mai accaduto prima: su quel volto di stracci raggrinziti, un rivolo di lacrime s’insinuò fra una piega e l’altra. Spaventapasseri era disperato, disperato, soffriva e non aveva più voglia di vivere: tanta bellezza fuori e tanta solitudine dentro. Alzò lo sguardo implorante verso la montagna nella speranza che qualcuno lo aiutasse. Lentamente, con discrezione, la montagna lo abbracciò con la sua ombra e all’infelice parve di sentirsi meglio.
In lontananza notò girovagare il cane Tober, quello spelacchiato che gli rosicchiava sempre la gamba. Lo chiamò con voce amichevole: ”Tober, ho bisogno di te.”
“Hai bisogno di me??? ma se fino ad ieri m’insultavi!”
“Scusami, ma le tue grattatine alla gamba non mi facevano sempre solo solletico, poi non mi piaceva proprio quando mi pisciavi addosso.”
Il cane rimase in silenzio a riflettere. Forse Spaventapasseri non era cattivo come sembrava. Forse era solo introverso per via della solitudine. Si vergognò di avere pensato male di lui e di avergli procurato alcune noie.
“Che posso fare per te?”
“Vorrei che dicessi ai ragazzi di tornare qui a giocare.”
Tober alzò lo sguardo su di lui e vide che gli stracci del viso erano bagnati. Capì la sofferenza di quello strano individuo e si ripropose di aiutarlo. In fondo doveva farsi perdonare molte impertinenze. Gli si accovacciò accanto e rimase a lungo ad ascoltarlo. Lo sventurato si lamentava in continuazione, era un po’ pesante da sopportare, ma si sa, ad un’amicizia bisogna pur saper sacrificare qualcosa.
“I bambini, i bambini, non vedo più i bambini venire al campo…” piagnucolava Spaventapasseri. “Dimmelo, tu che vivi in mezzo a loro, spiegami perché non vengono più a giocare al pallone…”
Il cane non voleva dirgli la verità: i bambini sarebbero tornati sempre meno, ma non sapeva spiegargliene la ragione.
“Eh…, che possiamo fare… stanno in casa”, rispondeva con fare di chi sa e non vuole dire.
“Sono ammalati forse, tutti, un’epidemia.”
“No, stanno in casa, ora, a giocare…”
“Tutti insieme nella stessa casa?”
“No, ognuno a casa propria. Uno o due al massimo…”
“Come possono stare sempre in casa? Non godere dell’aria, dell’azzurro del cielo, del verde dei prati, della vita all’aperto? Qual è la ragione che li costringe in quattro mura, soli, loro che hanno due gambe e sono liberi di correre, tirare calci al pallone, gareggiare con gli amici? Soli in casa, non capisco!”
Il cane fece un’espressione preoccupata che lasciava intendere un qualcosa di veramente grave, ma in realtà non sapeva risolvere l’enigma. Si allontanò promettendo di fare il possibile per aiutare il suo sfortunato interlocutore.
Per un po’ di tempo non si fece vedere al campo, ma un bel giorno Spaventapasseri lo vide arrivare al trotto come chi si presenta per mostrare un trofeo e capì che avrebbe portato buone nuove.
“Ho trovato, ho trovato!” gridò Tober con orgoglio. “C’è una parola magica per chiamare i ragazzi ed io l’ho scoperta!”.
Il cane depose un biglietto ai piedi dell’amico. Spaventapasseri inclinò per la prima volta il capo e lesse:
–www.bambini.it–
Luisa Caeroni
http://www.lyuzarte.it
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