
Una giovane ragazza Iraniana protesta contro la “hijab rule”
di Nahid Shamdoust
Nahid Shamdoust è professore associato di Studi iraniani all’Università di Yale e autore del libro “Soundtrack of the Revolution: The Politics of Music in Iran.” Riportiamo di seguito la sua analisi del movimento delle donne contro il velo che si sta affermando in Iran in queste settimane, apparsa sul New York Times il 3 febbraio 2018.
Il 27 dicembre, Vida Movahed stava in piedi a capo scoperto su una cabina elettrica in una delle strade più frequentate di Teheran, sventolando il proprio chador su un bastone. In capo a qualche giorno, le immagini della trentunenne, che è stata arrestata e quindi rilasciata solo qualche settimana dopo, è diventata un simbolo.
Nelle settimane dopo la protesta pacifica contro l’obbligo di hijab della Movahed, decine di donne e perfino alcuni uomini in tutto l’Iran hanno seguito il suo esempio. Finora, almeno 29 donne nelle città di tutto il Paese sono state arrestate.
Questi coraggiosi atti di ribellione contro il velo sono senza precedenti nella storia quasi quarantennale della Repubblica, ma da anni esiste un movimento che potrebbe averli in parte ispirati. Ha avuto inizio sull’account social di una giornalista iraniana residente a Brooklyn, di nome Masih Alinejad.
Nel 2014, la signora Alinejad aprì una pagina Facebook chiamata My Stealthy Freedom, “La mia libertà clandestina”, rivolgendosi alle donne perché postassero immagini di sé pubbliche senza l’hijab. L’anno scorso, la giornalista ha lanciato i “Mercoledì bianchi” o “White Wednesdays,” invitando le donne a indossare hijab bianchi di mercoledì per protestare contro la legge che impone l’obbligo di hijab (la signora Movahed ha protestato un mercoledì indossando una sciarpa bianca, anche se non si sa se attualmente aderisca o meno alla campagna della signora Alinejad).
Masih Alinejad, che ha lavorato come giornalista in Iran prima di emigrare in Inghilterra nel 2009, ha dichiarato che la sua campagna è nata per caso. Aveva postato una sua foto mentre guidava la macchina in Iran senza l’hijab, invitando altre a condividere “foto clandestine” sulla sua pagina Facebook. La risposta massiccia -la pagina ora ha più di un milione di follower- l’ha spinta a focalizzarsi di più su questa questione. “Ero una reporter politica, ma le donne in Iran mi hanno costretta a occuparmi della questione delle libertà personali”, mi ha confidato.
Per la signora Alinejad e le donne che hanno aderito alla protesta, la lotta contro il velo obbligatorio è questione di tornare ad avere controllo sul proprio corpo, non di mettere in discussione l’hijab in quanto tale. Ora che le donne a capo scoperto vengono raggiunte nelle proteste da donne che vestono con orgoglio il chador integrale, è chiaro che il movimento, sul terreno concreto, riguarda anche il diritto della donna di scegliere come vestirsi – un qualcosa che diversi leader iraniani hanno cercato di negare nell’ultimo secolo.
Il fondatore della dinastia Pahlavi, lo Shah Reza, aveva abolito l’hijab, in un gesto di modernizzazione, nel 1936, il che aveva comportato la messa agli arresti domiciliari di alcune donne che non potevano sopportare di girare scoperte. Il leader della Repubblica Islamica, l’Ayatollah Ruhollah Khomeini, rese l’hijab obbligatorio nel 1979.
Le proteste femminili di massa non sono riuscite a fare revocare l’editto. I sostenitori dell’hijab hanno inventato lo slogan “Ya rusari ya tusari,” che significa “o il capo coperto o un pestaggio”, e “commissioni” di supervisione -spesso composte da donne con lo chador integrale- hanno invaso le strade e punito le donne che giudicavano poco coperte. Coloro che si opponevano a questa misura restrittiva chiamavano queste donne burocrati “Fati commando,” un termine sminuente che combina l‘Islam -nel soprannome Fati per Fatemeh, la figlia del Profeta- e l’atteggiamento da vigilantes.
Continua a leggere: Perché le donne iraniane si tolgono il chador – Gariwo


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