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 MIGRANTI: QUELLO CHE LE TELECAMERE NON DICONO

di Giulia Presutti
Roma. Agosto 2016. Giro per il campo della Croce rossa, che in zona Tiburtina accoglie i migranti transitanti. Tra le mamme eritree e i loro piccoli due occhi neri mi colpiscono. Sono rossi e sbarrati, quasi strambi. Il proprietario è un bambino di tre anni con un viso indimenticabile. Così indimenticabile che mi rendo conto di averlo già visto: un mese prima, allo sbarco della nave nel porto di Palermo, c’eravamo entrambi. L’avevo notato tra millecento persone perché a tarda sera ancora giocava. Dopo giorni di mare e ore di attesa si arrampicava su una grata: gli occhi neri erano vuoti, assenti per la stanchezza. Eppure giocava, quasi come un automa. Riprenderlo era impensabile: troppo rispetto per il suo trauma.

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 MIGRANTI: QUELLO CHE LE TELECAMERE NON DICONO

Il piccolo eritreo è solo uno dei volti del mio viaggio: persone che ho notato una volta e che ho rivisto ancora, nelle tappe successive. Ad Agrigento, dove passa chiunque sbarchi a Lampedusa, i due Ibrahim del Gambia mi hanno riconosciuta. Sull’isola uno di loro mi aveva mostrato l’hotspot, l’altro mi aveva fatto compagnia fuori dall’internet point. Come tutti, nell’hub di Siculiana, i due ragazzi aspettano. Di fare domanda d’asilo, di ottenere un posto migliore, magari in un centro del Nord. “È tutto pieno -si giustifica un funzionario di polizia- perciò i migranti restano qui in Sicilia per mesi”.

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